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recensioni di Luca Barachetti – lucabarachetti@gmail.com

Archive for dicembre 2007

Long Play – Giuliano Palma & The Bluebeaters (V2, 2005)

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Se lo ska è stato protagonista negli ultimi sette-otto anni di uno sdoganamento che nel nostro paese ha avuto prima d’oggi pochi precedenti – diventando soprattutto tra i giovani una musica buona per tutte le stagioni e tutti i luoghi: dai club a Mtv, passando per le Feste de l’Unità – il merito (o se preferite la colpa) è anche di Giuliano Palma & The Bluebaters. Nel 1999 con le rivisitazioni di brani famosi del best-seller “The Album” trovarono la formula (valida poi anche per altri gruppi)  capace di aprire tante porte ad un genere che fino a quel momento aveva avuto un seguito medio-basso, riuscendo a guadagnarsi un pubblico quantomai fedele che li segue ancora oggi nei loro tour (quasi) senza fine.

Long playing” non fa altro che continuare il discorso intrapreso, e se da un lato rispetto al suo predecessore perde qualcosina in freschezza, dall’altro rinverdisce decisamente il repertorio, che questa volta punta gran parte della propria attenzione “rivisitatoria” sul rock (inteso in senso molto lato). La voce morbida di Palma e il solito gusto demodè degli arrangiamenti (a cui corrisponde l’altrettanto stilosa eleganza della confezione del disco) coinvolgono sia i Kiss più cantabili di Hard Luck Woman che i Queen di You’re my best friend, ma anche Sweet revenge di Joe Strummer (a cui è dedicato l’intero lavoro) e Jealous guy di Lennon.

Non mancano comunque interpretazioni di brani più vicini alla originaria sensibilità ska: oltre ad una nuova escursione nei territori di Marley o dintorni (Shame and scandal è di Peter Tosh & The Wailers e qui viene cantata da Bunna), troviamo alla traccia sette una bella versione di Danger in your eyes di John Holt e alla ventuno Renegade di Duke Arthur Ried; mentre è affidata alla contiana Messico e nuvole il ruolo di traino che fu della fortunatissima cover di “Che cosa c’è”.
Ancora una volta nulla da dire sull’incessante lavoro dei fiati, sempre capaci di trovare soluzioni fantasiose e coinvolgenti (anche insieme all’organo di Mr Peter Truffa, alla sua prima presenza su disco ma dal vivo già a lungo in formazione), e in generale sulla prestazione di un combo ormai del tutto rodato che riesce ad unire qualità e varietà di spunti. Qualche dubbio invece sorge sulla lunghezza eccessiva dell’operazione (ben ventidue tracce per settantasette minuti di musica) che arrivata al suo terzo capitolo ha sempre di più la parvenza di un juke-box in levare, ben suonato e ben cantato ma privo di quella compiutezza rintracciabile nelle atmosfere festaiole dei concerti.

Voto: 6.2
Brani migliori: Danger in your eyes.

Live in Blu – Max Manfredi (Storie di Note, 2004)

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La Genova dei carruggi zeppi di disperati, il mediterraneo mitico di “Creuza de ma”: è da qui che Max Manfredi parte per il suo variegatissimo viaggio musical-letterario. Sembra banale dirlo ma Manfredi non sarebbe lo stesso se prima di lui non ci fosse stato Fabrizio De Andrè. Quello del compianto cantautore genovese è un riferimento sicuramente ingombrante – a partire dalla somiglianza fra le due voci – ma è anche una presenza vitale, perché se è vero che da lì Manfredi parte è sempre da lì che Manfredi si distacca. Le sue canzoni vivono di uno stile personalissimo, che rielabora l’insegnamento di De Andrè anche attraverso l’incontro di numerose influenze.

Live in blu riepiloga ciò che Manfredi ha fatto fino ad oggi nei suoi tre (introvabili) dischi e le tracce dell’album evidenziano bene quanto detto prima. L’inizio con La fiera della Maddalena è quasi una dichiarazione di deandreiana genovesità (Mi sono trovato sveglio con il lichene nei miei capelli), ma poi Via G. Byron, poeta (premio Recanati nel 1989) mescola il jazz ai surreali deliri di Queneau e Bukowski. La ballata degli otto topi fa incontrare il cabaret acido di Kurt Weill con l’invettiva sociale de “Le nuvole”; Molo dei greci invece smitizza gli spazi di “Creuza de ma”, inquinati come sono dall’avanzare inarrestabile degli oggetti del commercio (ci trovi gli aironi che volteggian tra i rimorchiatori, più morti che vivi).

Sono gli oggetti – le cose di ogni giorno riutilizzate letterariamente – a caratterizzare la poetica sghemba di Max Manfredi. Ce ne sono dappertutto: nella sensualità di una figura femminile (il tuo Lancome stanotte farà un lago), nelle descrizioni lirico-paradossali di paesaggi (“il mare nei giorni di pioggia / è un brivido di stagnola / ci nuotano i cocktail di scampi”) o di situazioni amare e assurde (La USL non passa l’amore); esaltati da gustosi giochi di parole o descritti come solo il Pavese di “Lavorare stanca” sapeva fare (Tabarca, capolavoro dell’album).
Vista la tanta perizia con la penna in mano sarebbe molto interessante – come già fece nel 1994 con “Il libro di Limerick”, anche questo ormai introvabile – vedere di nuovo Max Manfredi alla prese con una pagina bianca. Intanto le sue parole stanno su un fado, su un rebetico, o su una ballata dal sapore tex-mex; vanno in giro guidate dal caso e dall’odore delle donne nei bordelli. Genova è malata ma si fa ancora amare. E’ comunque un bel sentire, Fabrizio lo accompagna.

Voto: 8.3
Brani migliori: La fiera della Maddalena, La ballata degli otto topi, Tabarca.

Written by Luca

29/12/2007 at 14:54

lecosedaevitare – Il Vortice (Wild Flowers/Ethnoworld, 2005)

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Il Vortice esordisce ufficialmente con lecosedaevitare a due anni di distanza dal primo demo, un periodo di sedimentazione piuttosto corto soprattutto se si è alle prese con un’estetica – il rumore chitarristico dei Sonic Youth più l’appeal poetico-teatrale dei primi Marlene – che concede con fatica nuove possibili alternative a sé stessa.
Il suono del gruppo campano mischia noise e melodia, lunghi strascichi strumentali e fulminee accelerazioni al limite dell’hard. Ma non si ferma alla “bella coppia” di sopra e abbraccia anche le rotte di Motorpsycho e Verdena e alcune manieristiche escursioni post (alla Mogwai o giù di lì: vedasi Aurora). Sono tutte influenze che però non aiutano a trovare quella boccata d’aria necessaria per non fare risultare il lavoro del gruppo solo come una serie di notevoli calchi.
Ci sembrano infatti proprio questo le canzoni del disco, tutte ben suonate e sottoposti ad una cura appassionata per quanto riguarda testi e arrangiamenti, ma anche eccessivamente prevedibili nelle strutture. Si indovina quasi da subito dove sarà il cambio di ritmo de Il senso o l’esplosione sonica di Fuliggine, o un certo breve climax volto ad ingrossare il muro delle chitarre (come in Errore #2). Ovvio è anche  il cantato di Michele De Finis, che non risparmia qualche interpretazione a dire il vero esageratamente eccentrica.

In altre tracce si cercano nuove soluzioni, a cui però il più delle volte andrebbe aggiustato in parte o del tutto il tiro (magari per mano di un produttore esterno e più esperto). Succede per Qualcosa che rimane, recitativo dov’è meritata l’equiparazione ai Massimo Volume ma solo per la parte musicale (la voce risulta dispersa e inespressiva); e così per Cane di pezza, dove tra rumorismi e contrasti vuoto/pieno si cerca un effetto “drammatizzante” che rimane purtroppo tale, fine a sé stesso e incompiuto. Ci soddisfa invece di più Cose da evitare, dove i canonici basso-batteria-chitarra fanno strada a pennellate di rhodes volatili e scoordinati che creano una particella sonora da cui avremmo voluto veder scaturire una canzone piuttosto che uno strumentale semi-irrisolto.
Magre conclusioni però per un esordio che alla fine dei conti dà l’impressione di essere poco meditato – o forse al contrario pensato all’eccesso, ma solo strettamente all’interno del gruppo – e non riesce a trovare una propria risposta a quegli stimoli che tra New York e Cuneo furono messi in circolo ormai più di dieci anni fa.

Voto: 4.7

Written by Luca

29/12/2007 at 10:15

Live: Andrea Chimenti – Casa 139 di Milano, 8/2/2005

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Non è ancora tempo per le canzoni di Vietato Morire, ultima fatica in studio che Andrea Chimenti porterà in concerto da marzo. Alla Casa 139 l’ex voce dei Moda propone la sua personalissima rilettura cantata dei versi di Giuseppe Ungaretti, quel Porto Sepolto che discograficamente parlando è stato uno dei suoi più difficili “contatti” con la letteratura e anche uno dei meglio riusciti. Ma l’album era solo un estratto dell’intera performance (le canzoni arrangiate per archi, pianoforte e chitarra); dal vivo le poesie cantate di Ungaretti incontrano le parole di Tolstoj, Pascoli e Buzzati. Ne risulta uno spettacolo denso e dilatato, il cui tono meditativo non è inquinato dalla voluta brevità del tutto; uno spettacolo che ripaga abbondantemente l’attenzione richiesta, anche solo per il valore letterario dei singoli episodi o per la qualità della proposta musicale – dicasi del solito supereclettico Massimo Fantoni alle chitarre e delle notevoli qualità d’interprete/attore di Chimenti. 
Così proposto nella sua versione allargata, Il Porto Sepolto diventa un’indagine tutta interiore sul fallimento e sulla rinascita, in cui alla consapevolezza della sconfitta rispondono i canti d’immenso di Ungaretti. La sconfitta è raccontata con le parole de La confessione di Lev Tolstoj – lancinante ammissione dell’impossibilità della scienza di risolvere i misteri della vita – e con la disincantata vicenda di Giovanni Drogo nel Deserto dei Tartari di Buzzati. La rinascita – i primi versi dell’ungarettiana Vanità: “d’improvviso / è alto / sulle macerie / il  limpido / stupore / dell’immensità – arriva inattesa e imprevedibile, anticipata dal dolore del fallimento e dall’accettazione di esso. I due aspetti complementari dialogano e si alternano continuamente lungo il percorso artistico senza una reale soluzione. Alla fine, ad emergere tra il dolore e la luce, è un “tarlo che lavora (Il libro, da Pascoli), l’inestinguibile sete di verità dell’uomo che Andrea Chimenti nel Porto Sepolto sa cantare come pochi altri. E’ grazie a lui e a spettacoli come questo che ci si sente, a volte, “ubriachi d’universo.

Written by Luca

28/12/2007 at 18:52

Litania – Giovanni Lindo Ferretti & Ambrogio Sparagna (Baracca e Burattini/Edel, 2004)

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Giovanni Lindo Ferretti prima o poi un disco così lo doveva fare. Ce n’erano tutti i segnali nel suo percorso artistico. Un buon manipolo di canzoni che potremmo riduttivamente chiamare spirituali (tra cui Madre, Intimisto, Paxo de Jerusalem qui riprese); una sempre maggiore ieraticità nell’approccio al canto e nella postura sul palco – ritto, scarno, essenziale -; uno stile di scrittura a volte accostabile alle mistiche ripetizioni mantra o a certe giaculatorie popolari; una crescente attrazione verso l’espressività religiosa, cristiana e non (“Gobi” in “Tabula rasa elettrificata”, “Libera me Domine” e la splendida “Veni Creator Spiritus” nel live “Montesole”). Insomma un’operazione come Litania, di recupero e riproposizione del repertorio liturgico e tradizionale cattolico, Ferretti sembrava la stesse ricercando da tempo. L’incontro con Ambrogio Sparagna e la sua arte preziosa è stato allora fatale e ciò che ne è uscito – nonostante una certa difficoltà ai primi ascolti – è un disco imperdibile.

Litania, va detto, non è solamente recupero filologico. Basta ascoltare cosa premette con molta franchezza Ferretti in apertura dello spettacolo («quello a cui assisterete non è uno spettacolo, è una preghiera, nella nostra intenzione e spero anche nella vostra») e basta ascoltare il disco, non un revival serioso e sterile, ma un canto mistico di invocazione e lode – umano, emotivo e umanizzante – capace di trasmettersi nel profondo anche a chi non crede. Ciò avviene nell’impetuoso Magnificat iniziale, nella popolaresca Regina degliu cielo e nel Padre Nostro. Alcuni pezzi più problematici, come Intimisto ritoccata nella linea melodica ed ulteriormente esaltata dal quartetto vocale Vox Clara, diventano estatici canti di nudità, tormentati come non mai. L’avvicendarsi dei brani viene interrotto da alcune letture di preghiere (l’Ave Maria in bocca a Ferretti perde incredibilmente ogni vacuità retorica), uno stralcio dal vangelo apocrifo di Nicodemo e brani autografe dello stesso Ferretti (gli intensi componimenti Occitania e Lorica). La chiusura registra un riferimento a Davide quantomai dichiarativo dell’intento del progetto: “Davide, Re e Profeta, danzando piacque a Dio, non per la sua danza, ma per il sentimento che l’ispirava”.

Ferretti e Sparagna sono riusciti con Litania nel difficile compito di sradicare il repertorio tradizionale liturgico della religione cattolica da tutta quell’aurea di mala austerità e inumana freddezza che il tempo la Storia hanno costruito. Raramente dei canti di preghiera tradizionali sono risultati, all’anima, tanto Vivi e Vicini.

Voto: 8.6
Brani migliori: Magnificat, Intimisto, Occitania.

La Storia Di Come Mi Nascosi Dietro Alla Luna – Guglielmo Ubaldi (Autoprodotto/Edizioni Programma Uno, 2005)

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Quando bussi e ribussi alle porte con il tuo bell’oggetto musicale in mano e nessuno ti risponde, puoi decidere di fare due cose: cambiare mestiere oppure eleggerti etichetta, manager, produttore e fonico di te stesso e pubblicare il tuo disco. La seconda ipotesi richiede qualche soldo in tasca e una grossa dose di intraprendenza – e, cosa ancora più ardua, delle canzoni che giustifichino lo sforzo – ma se poi ci riesci, come ci è riuscito Guglielmo Ubaldi, non sai quanta sarà la tua fortuna, ma potrai dire di averci almeno provato.
L’oggetto di Ubaldi (il secondo, dopo l’esordio “Le urla degli ubriachi nella notte”) si intitola La Storia Di Come Mi Nascosi Dietro Alla Luna e raccoglie dieci canzoni decisamente influenzate da tutto quanto fa cantautorato folk-blues americano (Dylan, Young, Van Zandt) e inglese (Drake); canzoni che se non ci fanno certamente gridare al miracolo, almeno, come puntualizzavamo sopra, giustificano lo sforzo.
Potremmo fare un lungo elenco dei difetti di questo disco – a partire dalla qualità della registrazione vicina a quella di un demo – ma sarebbe il solito elenco di difetti tipici di una produzione “in proprio”. Piuttosto preferiamo sottolineare quelle due o tre spie che danno ragione ad Ubaldi e al suo insistere con le canzoni: i riflessi dolci e malinconici di una canzone-bonsai come Ditele che l’amo, il sicuro impatto emotivo di Fiori freschi, l’ironia dell’autocelebrazione in salsa country di Old West. E di fondo l’onestà della proposta, che non viene a mancare neanche in quei brani bisognosi, per scrittura e cantato, di una radicale revisione (Il blues dello scorpione: dobro volutamente zoppo e qualche vistoso inciampo nel testo; Con la notte davvero un po’ soporifera) e che è forse il miglior punto d’appoggio da cui ripartire per continuare a crescere.
Vista la relativa vicinanza dei due primi dischi (2003 e 2005) sarebbe meglio attendere un po’ prima di fare il terzo passo, di modo che il tempo (se non un aiuto esterno) selezionino più che in passato le cose migliori. Ma non ci sembra proprio questo il caso di mollare.

Voto: 5.0
Brani migliori: Ditele che l’amo.

Written by Luca

28/12/2007 at 10:16

L’amico di Cordoba – Servillo-Girotto-Mangalavite (il Manifesto Dischi, 2004)

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Capita a volte, ma è cosa davvero rara, di trovarsi tra le mani un disco che vale più di quello che lo si è pagato. E’ il caso de L’amico di Cordoba, album del trio formato da Peppe Servillo (voce della Piccola Orchestra Avion Travel), Natalio Mangalavite (pianoforte) e Javier Girotto (sax degli Aires Tango). E’ vero che gran parte del merito riguardante il basso costo del disco (per la cronaca: otto euro) va alle edizioni il Manifesto, mai abbastanza lodate per questa politica dei prezzi, ma i tre artisti ci hanno messo tanto del loro per far accadere tale rarità, e il risultato nel complesso è un disco tanto bello quanto inosservato dalla maggior parte del pubblico.
Le rotte sonore intraprese ne L’amico di Cordoba sono all’incirca simili a quelle degli Avion Travel ma con un maggior propensione verso il jazz e soprattutto verso il tango – quest’ultimo direttamente omaggiato con una cover di Vuelvo al sur di Astor Piazzolla – generi che riescono ad amalgamarsi comodamente grazie all’estro pianistico di Mangalavite, ai preziosi inserti di sax di Girotto e ad un Servillo come sempre interprete elegante (ma questa è caratteristica indistinta nei contributi dei tre) e dotato di tutti quei toni indispensabili a confermarlo, ancora una volta, come uno dei migliori cantanti italiani in circolazione, nonostante le lacunose capacità vocali. Se qualcosa a fine registrazioni poteva essere anche omesso (quattordici tracce allungano troppo la durata del disco), qualcos’altro emerge per grazia compositiva e incisiva semplicità (Cinema, Regina), o per un gustosissimo approccio teatrale (Separazione) che fotografa con azzeccata ironia alcune difficili situazioni quotidiane (in questo senso il pezzo citato prima potrebbe essere un’ideale prosieguo della traveliana La conversazione). Invece, quando l’orecchio viene trasportato verso certi echi popolari che si rifanno anche alle canzoni da rivista o a Modugno (Prima di te, Il gatto, La canzone dei fiori) le affinità con gli Avion Travel sono fin troppo evidenti, ma rimane comunque una marcata caratura qualitativa che rende quei pezzi ugualmente molto apprezzabili, come del resto tutto il disco.

Voto: 7.6
Brani migliori: Cinema, La separazione.

Written by Luca

27/12/2007 at 19:55

Lo.Mo: ripartire dopo i Bartok nonostante tutto

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Anche se è errato considerarli dei veri e propri esordienti – i tre quinti del gruppo sono stati la base portante dei disciolti Bartok – i Lo.Mo con “Camere da riordinare” hanno messo a segno una delle più interessanti prime prove di quest’anno. Abbiamo parlato del disco d’esordio e di altro con Roberto Binda, cantante e autore dei testi del gruppo ma anche venditore di dischi in un negozio di Varese.

I Bartok si sono sciolti a metà 2004, i Lo.Mo nascono di lì a pochi mesi. Da cosa ha preso il via l’idea di un nuovo progetto?
Nei Bartok al tempo ci furono due defezioni. Pianoforte e violoncellista andarono a vivere da un’altra parte. Volevamo comunque continuare ma era inutile tenere lo stesso nome perché chi se ne era andato aveva una parte fondamentale nelle dinamiche del gruppo. Allo stesso tempo sapevamo che, per come siamo caratterialmente, smettere per un periodo poteva voler dire smettere per sempre. Allora all’inizio provammo diverse soluzioni per tentare di capire che strada potevamo prendere. Poi l’innesto di Paolo (Zangara, ndr), che era il chitarristi degli IK14, e successivamente l’incontro piuttosto casuale con Darren (Cinque, ndr) hanno dato vita e forma al progetto Lo.Mo.

L’innesto di due nuovi elementi ha cambiato qualcosa nei vostri metodi di lavoro?
Senza Paolo e Darren avevamo un approccio molto simile a quello dei Bartok perché comunque quando una band rimane coi tre quinti della stessa formazione di prima l’approccio rimane lo stesso. Successivamente insieme a loro due il modo di lavorare è cambiato. Non ci siamo affidati più all’improvvisazione come coi Bartok – si arrivava in studio senza qualcosa di già pronto e si suonava a ruota libera plasmando il risultato finale – ma abbiamo fatto un lavoro a due sulle canzoni, io e io chitarrista o io e il pianista, che poi è stato rielaborato da tutto il gruppo in studio. “Camere da riordinare” è un disco nato in maniera più cantautoriale rispetto al passato, anche se poi trascorsa la prima tappa del disco il metodo è cambiato di nuovo: oggi lavoriamo più da gruppo che da cantautori.    

Le canzoni di “Camere da riordinare” sono nate prima o dopo la fine dei Bartok?
Sono nate in seguito, in un lasso di tempo molto breve, perchè avevamo proprio bisogno di chiudere una fase e aprirne un’altra in maniera velocissima, senza troppe mediazioni.

Il passaggio dal primo al secondo gruppo è coinciso con il passaggio dall’inglese all’italiano.
Questa è stata un po’ una scommessa. Già quindici anni fa io e Tommy (Canal, ndr) avevamo un gruppo che si chiamava Ashpodel e durante i primi periodi facevamo pezzi in italiano. Poi quando era stata la volta di andare a registrare in studio il primo disco eravamo passati all’inglese, che poi abbiamo tenuto anche per i Bartok. Tornare coi Lo.Mo all’italiano è stato un po’ come tornare agli esordi.

Qualche difficoltà?
No, nessuna. Per il mio modo di cantare, che è poi un modo di cantare molto semplice perchè la mia voce non mi permette grandi escursioni vocali, non è stato particolarmente difficile. L’unica cosa è che con l’italiano sei un po’ più scoperto perchè sei più comprensibile.

Nell’economia delle canzoni sembra centrale l’apporto del pianoforte.
Darren per i Lo.Mo è sicuramente un apporto fondamentale perchè il pianoforte ci mancava molto, i Bartok stessi si poggiavano molto su questo strumento. Rispetto a Loris, Darren lui è più melodico. E ciò ha dato quel qualcosa in più ai pezzi, che spesso sono nati chitarra e voce. La centralità del pianoforte è frutto di una scelta anche produttiva, determinata insieme ad Hugo Race. Abbiamo dato più spazio al piano come volume di registrazione rispetto agli altri strumenti perchè caratterizzava maggiormente il suono in una direzione più originale.

Approposito di Race: vista l’atmosfera dei vostri brani è il produttore perfetto per il disco…
La scelta del produttore è fondamentale perchè i gruppi molto spesso non sono in grado di autoprodursi, hanno una preparazione che si limita al saper suonare e registrare i pezzi ma non hanno la capacità di capire e realizzare il suono che hanno in testa. Hugo ha decisamente marchiato il disco, volevamo quel tipo di atmosfere che troviamo anche nei suoi lavori e lui ci ha aiutato a trovarle. Lo abbiamo contattato noi mandandogli i provini di pezzi senza batteria e senza basso, solo con le guide melodiche. Lui ci ha fatto un controproposta su come vedeva la produzione di quei brani e a noi è andata bene.

Ad un primo ascolto di “Camere da riordinare” balza subito all’orecchio la forte somiglianza della tua voce con quella di Joe dei La Crus. Credi che ciò sia un vantaggio o uno svantaggio?
Musicalmente noi e i La Crus siamo molto diversi. Nonostante io e Joe siamo amici da vent’anni e il nostro background musicale sia molto comune, la sua direzione musicale è estremamente diversa dalla. I Lo.Mo sono più orientati verso il rock; i La Crus sono più cantautoriali ed elettronici, anche in modo raffinato e attento alle mode. E’ inevitabile però che partendo dagli stessi riferimenti e con la lingua italiana di mezzo possa risultare simile il modo di interpretare e cantare. Io comunque ho una voce più profonda, più frontale; lui più duttile, da interprete: cioè io canto peggio e lui canta meglio (ride, ndr)! La somiglianza della voce per me è uno svantaggio, per il semplice fatto che lui è arrivato prima. La gente sente questa somiglianza, Joe ha una storia musicale più forte della mia ed io, inevitabilmente, risulto derivativo da lui.

Mi sembra palese però che il tuo non è assolutamente uno scimmiottamento: hai quella voce e con quella canti.
Sì, è più evidente un mio scimmiottamento verso Leonard Cohen o Nick Cave o quel tipo di artisti piuttosto che Joe…

Una cosa che invece avete in comune coi La Crus ma anche con altri gruppi dell’indie italiano è un il recupero del cantautorato italiano tradizionale.
Credo che sia assolutamente inevitabile misurarsi con le cose italiane perchè il metodo di scrittura dei pezzi è estremamente diverso da quello anglosassone. Pur essendo ancora forte l’influenza della musica che hai ascoltato fin da giovane, quando vuoi scrivere canzoni nella tua lingua devi per forza guardarti in casa, fare tesoro di quello che di buono l’Italia ha prodotto negli anni ‘60 e ‘70 e mischiarlo soprattutto con l’attitudine del mondo anglosassone, che è quello che è sempre mancato alla musica italiana. L’equilibrio non è sempre facile perchè le metriche dell’italiano sono molto più vicine alla canzone pop che al rock. L’italiano è meno adatto ad essere troncato, è meno rock’n’roll.

Questo tentativo di unire Italia e Inghilterra sta aprendo alla canzone d’autore nuove vie, prima quasi inimmaginabili…
Sì, il tentativo c’è. Ma non c’è il mercato.

E neanche il riconoscimento. Penso al Premio Tenco che è finito pochi giorni fa. Mi sembra abbastanza limitante che, a parte i La Crus, gente come Basile, Benvegnù, Parente non sia ancora stata invitata su quel palco. E ancora più anomalo è il fatto che quest’anno il premio come “Miglior disco d’esordio” sia andato ex-aequo a gente come L’Aura, Veronica Marchi, Meg, Povia e Stefano Vergani. Con tutto il rispetto per questi artisti, se chi vota al Tenco si fosse ascoltato più dischi forse il premio sarebbe riuscito a fotografare con più esattezza lo stato della musica italiana, che quest’anno ha visto esordire cose certamente migliori di quelle.  
Al di là dei gusti personali, i primi nomi che hai citato sono interpreti. E’ paradossale che il Premio Tenco, un festival nato per omaggiare un autore, premi come miglior esordio degli interpreti ottimi che però non sono autori.

Sì, solo gli ultimi due sono autori e il premio dovrebbe concentrarsi soprattutto sulla canzone d’autore…
Sennò facciamo il Festivalbar! Se pensiamo poi che un tempo il premio è andato a Capossela

Dall’altra parte invece continua ad esistere, seppur faticando, la scena indie italiana. Tu nel doppio ruolo di musicista e venditore di dischi come la vedi?
Io ho un’idea molto negativa di quello che sta succedendo in Italia, ma non dal punto di vista qualitativo. Quando io ho iniziato ad avere i miei primi gruppi c’erano difficoltà oggettive: si suonava spesso in centri sociali con situazioni tecniche grottesche, i soldi che giravano erano solo rimborsi e neanche tanto grandi, e così via. Poi c’è stato un momento in cui, anche grazie all’ondata dei primi gruppi che hanno funzionato come Afterhours e Marlene Kuntz sono stati aperti parecchi club, le situazioni tecniche sono migliorate, anche il modo di registrare i dischi è migliorato (se tu senti dischi prodotto a cavallo tra anni ’80 e ’90 ci potrai trovare anche delle belle canzoni ma registrare in modo a volte imbarazzante). A quel punto c’è stata la grande stagione delle nuove etichette indipendenti come Homesleep o Gammapop che avevano gruppi un’attitudine diversa rispetto agli After o ai Marlene ma con delle possibilità di avere lo stesso un  pubblico e di guardare anche verso l’estero. Penso ai Giardini di Mirò, ai Julie’s Haircut, agli One Dimensional Man, agli stessi Bartok. Quella secondo me è stata la stagione migliore ma è durata giusto due o tre anni: andavi a suonare in tutta Italia, avevi uno zoccolo di gente che ti seguiva e avevi l’illusione di poter fare qualcosa d’importante anche fuori confine. Oggi vedo che è precipitato tutto: Homesleep ha ridotto drasticamente i propri numeri, Gammapop è sparita, la Ghost Records fa molta fatica; poi i club sono sempre meno, i soldi a disposizione anche, e realizzare un disco seriamente costa sempre di più, con l’aggravante che le vendite sono esattamente la metà di quanto lo erano qualche anno fa.

Ed invece secondo te la qualità è alta…
Sì, la qualità delle produzioni è rimasta alta. Però ad esempio venerdì sono andato al Jail di Legnano a vedere i Franklin Delano e c’erano cinquanta persone. Non che i Franklin non siano una bella proposta, anzi. Ma la verità è che quello è il loro pubblico. Tranne casi eccezionali, come di recente i Marta Sui Tubi, il pubblico è quello. Si sta tornando alla vecchia situazione: impossibilità di spostarsi a suonare in giro con cachet decenti, difficoltà a produrre un disco quando hai a disposizione cinquemila euro che sono poi irrecuperabili perché al massimo vendi cinquecento copie. Io la situazione la vedo molto negativa, non tanto per la qualità, ma proprio per le difficoltà del mercato.

Ma non trovi che escano troppi dischi?
Escono troppi dischi, probabilmente anche il nostro è uno dei troppi (ride, ndr)! La produzione indiscriminata di dischi c’è in tutti i paesi e da molti anni, è diventato molto facile registrare in casa. Ma i dischi che poi finiscono sul mercato sono comunque sempre di meno di quelli che vengono realizzati: una selezione naturale a questo livello c’è già. Sta di fatto che pochi giorni fa leggevo la selezione dei trentacinque dischi per il “Premio Fuori dal Mucchio” e nonostante sia un addetto ai lavori conoscevo all’incirca sei o sette titoli su un centinaio di esordi che, al di là della selezione del premio, escono ogni anno. Si spera sempre che un gruppo prima di arrivare all’esordio maturi lentamente e non butti il proprio lavoro nel nulla facendo un disco ancora in fase acerba. Per contrastare le uscite eccessive non vedo comunque una soluzione reale più efficace della selezione del mercato.

Mentre per quanto riguarda il pubblico?
Uno dei grossi limiti dell’indie italiano è che il pubblico è composto quasi esclusivamente dagli stessi musicisti che compongono la scena. I dischi ce li si scambia tra gente che suona e i concerti ce li si va vedere tra gente che suona. Non si riesce mai ad aprirsi ad altri tipi di mercati e ad altri tipi di persone.

Quindi il tuo giudizio, per concludere, è totalmente negativo.
La mia speranza è che si riduca sempre di più la frattura tra musica indipendente e pubblico. Io guardo sempre con molta ammirazione al lavoro fatto da Afterhours, La Crus e Marlene nel tentare di rendere sempre più sottile questo gap. Un musicista dovrebbe porsi tra i primi obbiettivi quello di far arrivare la propria musica a più gente possibile. Si dovrebbero evitare le guerre di chi ti accusa di esserti venduto solo per aver partecipato ad una trasmissione televisiva per promuovere un disco. Sono guerre tra poveri, che stanno diventando sempre di più guerre tra miserabili. Se andremo avanti di questo passo continueremo solo a chiuderci e a suonarcele e a cantarcele tutti insieme appassionatamente.

Written by Luca

27/12/2007 at 16:47

Pubblicato su intervista, interviste, LoMo, musica

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La rivoluzione c’è già stata! – Gian Piero Alloisio (Storie di Note,

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Collaboratore tra gli altri di Jannacci e Guccini – per cui ha scritto rispettivamente “La Strana Famiglia” e “Venezia” – e con l’Assemblea Musica Teatrale seconda via di quel teatro-canzone monopolizzato quasi per intero dal genio di Giorgio Gaber – con cui ha pure lungamente collaborato – Gian Piero Alloisio ha fatto a suo modo la storia della musica d’autore in Italia. Dispiace che il suo ritorno ad una pubblicazione discografica avvenga con un disco così povero e per certi versi incomprensibile come è La rivoluzione c’è già stata!, dieci episodi di diversa provenienza (alcuni scritti appositamente per l’album, altri provenienti dagli ultimi lavori teatrali del suo autore) ma accomunati da un’uguale sgraziataggine, tanto nei testi, quanto (e soprattutto) negli arrangiamenti, che peccano ovunque di un’ingenuità incredibile – e, vista l’esperienza di Alloisio, anche evitabile. Passi la title-track, di cui se ne intuisce la semplicità in funzione radiofonica; passi anche la poca ispirazione di Mohammed (razzismi ed estremisti dell’immigrazione in un testo tirato per le cinghie e con qualche giudizio troppo semplicistico) che cerca di tenersi su nel ritornello. Ma perché inserire un brano come Le nuvole, che neanche più a Sanremo ormai ne fanno così; o un brano buono solo per un musical oratoriale come è La Vergine e il tentatore?
Davvero non capiamo – ma potremmo continuare con il rock duro (ma finto) di Genova 8 o con le diafane Sei Sei Sei e Il Destino – e non possiamo fare altro che dare a “La rivoluzione c’è già stata!” solo gli ascolti necessari ad una recensione, salvando per il rotto della cuffia la zelighiana Silvio (con la battuta “Non ce l’ho con Berlusconi in sé, ce l’ho con Berlusconi in me” resa famosa da una vignetta di Altan) e lo sfottò ai “tormentoni antagonisti” di Manu Chao e soci di Multietnica.

Voto: 3.4

Written by Luca

27/12/2007 at 10:09

La pelle muta – Santa Sagre (Desvelos/Audioglobe, 2004)

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In copertina rasoio e pennello sono pronti all’uso: La pelle muta. Lo dicono fin dal titolo i Santa Sagre. A sette anni dall’esordio di Ogni città avrà il tuo nome – rock d’autore a tinte western tra le migliori uscite di un anno importante quale fu il 1997 per la “nuova” musica italiana – La pelle muta si sposta dall’America più profonda ad un più normale pop-rock di matrice seventies, rafforzato da un’evidente vena melodica e da sonorità più che godibili. Quello che Luca Talamazzi e compagni cercano è una leggerezza pensante e diretta, capace di servire sul piatto radiofonico i ritornelli giusti senza però massacrarsi di banalità. L’intento riesce in parte, poiché ad un impianto musicale ben suonato e ben congeniato in fase di arrangiamento corrispondono testi che spesso cadono in un personalismo scontato e poco coinvolgente (Il giorno dopo, Cosa? Cosa?). Adottando invece l’arma dell’ironia i Santa Sagre raggiungono i loro obiettivi: La via del Nirvana, attacco diretto alla moda delle religioni orientali, e Voglio un reddito (non un lavoro) sono i momenti migliori dell’album.
A tratti – nessuno si offenda – sembra di sentire Le Vibrazioni, contaminate però da qualche reminescenza beatlesiana (Il giorno dopo) o da un coro alla Afterhours dei tempi di “Hai paura del buio?” (uccidi la paura del buio cantano, e forse omaggiano, in Sulla pelle). Verso la fine Marta ripristina le atmosfere scure dell’esordi e lo sguardo si volge ancora al Texas e ai Carnival of Fools (Gravità zero farebbe piacere a Quentin Tarantino): la pelle muta, ma non rinnega il passato.

Voto
: 6.2
Brani migliori: Marta.

Written by Luca

26/12/2007 at 19:51

Kill The Ghost – The Jains (Tube Records/Venus, 2005)

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Dopo l’esperienza più che positiva con Pietro De Cristofaro per il progetto Song For Ulan, Cesare Basile torna ad occuparsi in veste di produttore di Anna Di Pierno (batteria) e Kris Reichert (voce e chitarra, già veejay di Mtv), ovvero The Jains. Anche al buon Cesare però, come a tutti i comuni mortali, i miracoli non riescono e difatti Kill The Ghost è un disco di una povertà disarmante.
Dici chitarra & batteria e il pensiero corre subito agli White Stripes. Per quanto riguarda le Jains però, prima di parlare di riferimenti – e quello ai fratelloni c’è, ma fino ad un certo punto – è necessario parlare di consistenza: quella che manca a Kill The Ghost. Le canzoni sono undici ma non ce n’è una che riesca a convincere – e allungare un disco fino a quaranta minuti non è stata di certo una furbata: sei o sette brani bastavano tutti. Non ce la fanno a lasciare un segno anche lieve Fixation o Elf Woe’s, che sì sono pezzi scarni ma anche magri, macilenti; non ce la fa la sensualità smaccata di Resonate; non ce la fa neanche una ballata come He comes, he knows, la cui dedica a Jeff Buckley potrebbe anche prenderti sul filo della nostalgia se le parole banali, loffie del testo non riducessero tutto ad una sequela di banalità finto-sentimentali.

Kris Reichert ha una buona voce, pur con qualche vistosa debolezza qua e là; Anna Di Pierno dietro le pelli qualcosa sa fare. Ma servono anche idee, originalità: tutte cose che mancano vistosamente.  Per fare un disco che meriti il tempo di chi lo ascolta non basta il make-up giusto, non basta il sito internet perfetto, non basta la cartella stampa patinata che titola “Distorsione e sensualità. Istinto e dissonanza” – la dissonanza, tra l’altro, è uno dei concetti nobili della musica e non va sputtanata in fondo ad una biografia (quella della Di Pierno), come un’esca: “Adora scrivere brani dissonanti”. Non basta nemmeno una produzione resa grezza al punto giusto per quella parte di pubblico ingenuamente brava a lavarsi la bocca con la parola “alternativo”; non basta neanche Cesare Basile, purtroppo, per dare esito ad un lavoro che abbia – banalmente – qualcosa-da-dire, uno spunto anche minimo di personalità che abbia la decenza di fare spendere soldi con un motivo valido a chi acquista dischi. Non stiamo parlando della Pausini, ne’ di D’Alessio. Stiamo parlando delle Jains: musica che si fa chiamare indipendente, che si dipinge alternativa. Ma la realtà – mettere su il disco e premere play per credere – è che, in questo caso ma non solo, si tratta di una irritante, sfacciata, vuota e controproducente pantomima.

Voto: 3.7

Written by Luca

26/12/2007 at 15:11

La musica nelle strade! – Les Anarchistes (Storie di Note, 2005)

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Fortunatamente la cosiddetta “canzone politica” non è solo slogan e frasi ad effetto. C’è anche qualcuno che, lasciate da parte le bandiere, le Verità e il consenso, decide di fare musica problematizzando, usando cioè le canzoni per compiere un percorso – serio, approfondito e necessario – sulla nostra realtà e i suoi sistemi. E’ quello che hanno tentato di fare, riuscendoci pienamente, i Les Anarchistes con La musica nelle strade!, lavoro ricco e pe(n)sante che partendo da un manipolo di brani dalle più disparate provenienze costruisce, insieme ad un libretto della collana Millelire allegato al disco, un’indagine breve ma molto interessante sulla biopolitica – ovvero il modo di condurre la società d’oggi, la “politica della vita”, fatta sul corpo (produttivo) degli individui – e sul concetto di campo – cioè quello stato di “eccezione giuridica” che realizzandosi stabilmente permette ad un potere sovrano di imporsi: i campi di concentramento, i centri di permanenza temporanea e così via.

Quindici le canzoni sul disco, due i capitoli del libretto (“La società disciplinare” e “La biopolitica del campo”, per un totale di sessantuno pagine). Ma nella battaglia qui quantomai fondamentale tra forma e contenuto, vince il contenuto; perché se da un lato è davvero molto interessante l’apparato di connessioni tra presente, passato e futuro organizzato dalla voce del gruppo Marco Rovelli (con l’aiuto degli interventi di Foucault, Nietzsche e Harendt, solo per citarne alcuni); dall’altro è anche vero che all’ascolto La musica nelle strade! presenta parecchi difetti.

Primo fra tutti – e comune a tanti dischi a loro modo militanti – è la lunghezza, che non affievolisce il legittimo “peso” di tutto il progetto. Avremmo preferito qualche canzone in meno e una maggiore cura dei singoli episodi, spesso impantanati nello stesso schema formale (introduzione maggiormente acustica, quindi proseguimento elettronico) e debitori di un po’ di “banalità” per quanto riguarda grooves ed effetti.
Convince molto di più invece l’interpretazione, sia quando è affidata alle voci titolari del gruppo (Marco Rovelli e Alessandro Danelli) sia quando è affidata ai numerosi ospiti (su tutti Giovanna Marini e Moni Ovadia, che strazia misticamente il canto ebraico Pishku Li); così come la scelta di alcuni brani di forte emotività e coinvolgimento (Inno a Oberdan, A las barricadas).

Voto: 6.3
Brani migliori: Pishku Li.

Written by Luca

26/12/2007 at 09:55

Video: Giorgio Canali & Rossofuoco, Falso Bolero

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Il regalo di Natale di Songwriters è l’ultimo video di Giorgio Canali & Rossofuoco, disegnato da Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti per la canzone Falso Bolero. Buona visione e buon Natale.

Written by Luca

25/12/2007 at 10:23

Pubblicato su Canali Giorgio, musica, video

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Il viaggio di Zebra – Libra (Macaco/Audioglobe, 2005)

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E’ rimasto poco del rock-grunge di “Penso a cose strane”, esordio risalente a tre anni fa dei Libra: Il viaggio di Zebra vira decisamente verso l’indie-pop di matrice italica e lo fa in modo assai compatto e credibile, riscuotendo maggior credito del suo poco coraggioso predecessore.
Lo spazio qui lasciato alle chitarre è per soluzioni elettroacustiche di buona fattura intrecciate a squarci elettronici dal forte accento seventies, come se i Perturbazione fossero alle prese con ondeggiamenti analogici quasi krautiani (Io resto qui) o dividessero il palco con i Tiromancino meno canzonettari e più inclini alle atmosfere dilatate e allucinatorie (non a caso Gennaio ci ricorda nelle intenzioni “La distanza”). Ed è ancora la band romana, nella parentela con Battisti, a tornare in Due di notte, sgroppata leggera ma pur sempre elettrica ed emozionante; mentre sono gli Afterhours in odore di Velvet Underground a dare ad Appeso il difficile ruolo di discendente di “Simbiosi” (impossibile non notare la somiglianza tra i due brani); nel finale Tu non credi, con la sua profondità sideral-rumoristica alla Mum e l’inevitabile detonazione sonica del finale, è quel piccolo capolavoro che non ti aspetteresti da una band che fino a quel momento ha brillato più per il proprio eccellente songwriting che per le scelte fatte in quanto ad elettronica non analogica.

Se “Il viaggio di Zebra” appare ai primi ascolti privo di effettivi passi falsi, col tempo non mancano comunque di affiorare alcuni brani minori (La seconda classe, La strategia del terrore) e la voce di Alberto Stevanato continua, come nel disco precedente, ad essere un tantino sommersa dalla corposità di certi passaggi (ed è un peccato perché di testi ben fatti qui ce ne sono: Marta, Appeso). Ma i Libra sembrano aver trovato alla loro seconda prova una più che feconda via d’espressione, capace di dare vita ad un disco di certo perfezionabile ma pienamente riuscito sotto quasi tutti gli aspetti.

Voto: 6.7
Brani migliori: Marta, Tu non credi.

Written by Luca

24/12/2007 at 19:32

Insieme a te sto bene cds – Lombroso (Mescal/Sony BMG, 2005)

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Nove minuti scarsi di musica per questo primo cd-singolo dei Lombroso che, invece di anticipare, posticipa l’omonimo album uscito l’anno scorso. Nove minuti e nessuna traccia inedita: l’intento probabilmente è quello di riepilogare brevemente quanto fatto fino ad oggi da Dario Ciffo (Afterhours) e Agostino Nascimbeni. Seppur nello spazio esiguo di tre canzoni, si intuiscono infatti tutte le influenze del duo: dall’amore per Battisti – omaggiato con la bella cover di Insieme a te sto bene qui riproposta con Morgan al basso – passando per il più ovvio ma non poi così calzante riferimento ai White Stripes (Io credo), fino ad uno sguardo deciso e piacevole verso il beat italiano anni settanta (il ritornello vintage di Non è quello che vorrei). Un assaggio consigliato a chi non conosce i Lombroso, come primo passo verso l’acquisto dell’album intero.

Voto: 6.2
Brani migliori: Insieme a te sto bene.

Written by Luca

24/12/2007 at 14:30

La Malavita – Baustelle (Warner, 2005)

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Dopo due video ad alta rotazione su MTV, un contratto discografico con una major (la Warner) e un brano inserito addirittura nella compilation di uno dei programmi tv più impresentabili degli ultimi anni (il ‘ggiovalinistico “Lucignolo”), i tanti prevosti dell’indie-snobismo italico attendevano il nuovo disco dei Baustelle con i loro bei fucili puntati, pronti a ribadire ancora una volta l’inevitabile declino artistico-morale di chi abbandona l’Indipendenza.
Gli è andata male, anzi malissimo. Il terzo disco della band di Montepulciano, cari i spillettati miei prevostoni deponete le armi, è un signor disco. Se c’è qualcuno che oggi è in grado di scrivere canzoni pop italiane belle e durevoli, questi sono proprio i Baustelle.

La malavita ricalca perfettamente l’estetica e l’immaginario baustelliano. Mette in primo piano le chitarre; sostituisce l’elettronica, comunque presente, con dosi massicce di archi spectoriani. Acquista omogeneità pop lasciando da parte tutte le soluzioni cantautoriali (niente bosse, niente bozzetti maudit-ciampiani). Accentua la carica narrativa già evidente nei dischi precedenti, limando però tutte le punte più sensuali e viziose (i duetti tra le voci di Francesco Bianconi e Rachele Bastrenghi sono rari e non riguardano più i turbamenti erotici di un tempo).
La depravazione c’è ancora, ma non è sessuale: è la mala-vita, il male di vivere. Quella perversione dell’esistenza già vibrante in passato, ma magari un po’ nascosta dal fascino di personaggi e situazioni border-line, che qui viene messa in primo piano con ironia e distacco consapevole; non tralasciando staffilate nichiliste dal forte impatto poetico che riprovano ancora una volta la caratura dei testi di Francesco Bianconi (vedasi Il nulla: «accorgersi / nel caos dell’ipermercato / o in un beato megastore / della bugia che sta alla base del mondo / in un secondo coglierlo / spogliato e crudo / il Nulla»).

E’ una società degenerata quella dei Baustelle, che finge di essere felice e non accetta le persone differenti (Il corvo Joe, figlio buono della Spoon River deandreiana) condannandole senza pietà una volta che hanno dichiarato al mondo la loro tragica guerra (il singolone La guerra è finita furbetto col suo riff interpoliano). E perverso è anche il meccanismo che costringe tanti signor nessuno a sperare di esistere davvero solo vestendosi A vita bassa (un’esistenza che comunque sarà sempre leopardianamente poca cosa: «e tutto il resto è inutile / e le modelle per la strada sfilano / ed ogni anno foglie morte nascono / comete nuove cadono / per un errore cosmico / è l’universo inutile»).
Ma dal male di vivere nasce molto spesso il crimine (Revolver, storia di una donna deviata e fatale), inevitabilmente il suicidio (Perché una ragazza d’oggi può uccidersi?, struggente ballata a due voci con e-bow penetranti) e anche l’ironico disincanto di Un romantico a Milano (altro riff appiccicoso e incipit da manuale: la canzone definitiva per tutti i dandy postmoderni): tutti mali contrastabili solamente con «un verso d’amore (che) cerca fiato per non soffocare più» (la maestosa e psichedelica I provinciali). Un verso d’amore come quelli che compongono Cuore di tenebra, proverbiale love-song di chiusura nata per essere cucita addosso al Celentano che fu.

La fuoriuscita ad album concluso di Fabrizio Massara pone parecchi interrogativi sul futuro dei Baustelle. Intanto è difficile non affibiare a “La malavita” l’etichetta di disco più compiuto dei tre fino ad ora prodotti dal gruppo. Date le circostanze, è auspicabile con la quarta pubblicazione un sensibile cambio di rotta. Ma del resto lungo questi lidi abbiamo davvero raggiunto il massimo.

Voto: 8.7
Brani migliori: La guerra è finita, Il corvo Joe, I provinciali.

Written by Luca

24/12/2007 at 10:28

Video: Roberto Vecchioni, Le lettere d’amore

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Roberto Vecchioni ha scritto parecchie canzoni su personaggi della storia, del cinema, della letteratura. Una delle più riuscite è sicuramente Le lettere d’amore, ispirata ad una poesia di Alvaro do Campos, eteronimo dietro cui si nasconde il grande poeta portoghese Fernando Pessoa.
Pessoa è uno dei poeti più importanti che fino ad oggi ho avuto modo di leggere; la canzone forse dimostra di non aver capito del tutto il personaggio però, come dire, funziona, emoziona. Vagando per YouTube, ho scoperto che ne esiste anche un video, eccolo:

Written by Luca

23/12/2007 at 17:53

In silence – Jade (Sugar, 2005)

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Prima o poi ce la farà Miss Caterina Caselli Sugar a piazzare la Band, quella che tutti in Italia (alternativi e non) ascolteranno: in poche parole i nostri Coldplay, i nostri Muse. Di candidati a questo proposito non ne mancano: dal Salento i Negramaro, che qualche risultato in merito lo stanno già dando; dal Friuli i Jade. Se i primi sono ovviamente classificabili alla voce “Coldplay e dintorni”, i secondi ne sono la risposta Muse-Buckleyana: tantissimi falsetti (chi odia le puntate vocali di Matthew Bellamy è meglio che cambi aria alla svelta) e tante chitarre mai eccessivamente acide ma complici di quella atmosfera apocalittica-dolente-maestosa tipica della band di Devon.
C’è da dire che “In silence” è assolutamente un disco godibile, ma ha il difetto enorme di dovere troppo ai suoi eroi e quindi scorre via, come la maggior parte dei prodotti con questo difetto, lasciando poca incidenza. Se la voce di Gianluca Ghersetti non fa uno sforzo in più per ritagliarsi qualche spazio di originalità – tranne che nell’esasperata Sexton – dal canto loro le chitarre dello stesso vocalist e di Riccardo Piemonte, tra distorsioni, rumorismi e feedback, ne inventano di tutti i colori: ma il risultato comunque non cambia (e provate a contare i finali che non siano pressoché uguali tra loro). Non migliora le cose l’incipit vagamente sigurrosiano di You are e neanche il gran lavoro di produzione di un singolo infallibile come Opera, all’inizio perfetto e sognante  nell’arpeggio di piano e inconfondibilmente brit in seguito (con una prescindibile comparsata di Elisa): i Jade rimangono marchiati – con poca anima – dai loro ingombranti modelli.

Voto: 5.0
Brani migliori: Opera.

Written by Luca

23/12/2007 at 14:17

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In fondo al blu – Giulio Casale (Artes/Mescal/Sony, 2005)

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In fondo al blu come in una condizione di estrema sincerità, aggrappati alla poltrona della propria coscienza, trattenendo il fiato per lasciare fluire liberamente i pensieri e le emozioni sulla (propria) vita e sul mondo: è quello che ha tentato di fare Giulio Casale nella sua prima prova totalmente solista (il pur convincente Sullo Zero si basava per lo più su canzoni degli Estra), radicale cambio di rotta verso una dimensione più “placida” e cantautoriale a dispetto del rock verace di un tempo. Tenco, Fossati e Buckley – anche se quest’ultimo più sfumato rispetto a prima – gli esempi da seguire, ma soprattutto il teatro-canzone di Gaber (i brani del disco infatti sono alla base di uno spettacolo teatrale dal titolo Illusi d’esistenza): inamovibile presenza per chi decide di percorrere un certo tipo di strada non solo artistica ma anche civile; onore e soprattutto audace onere, perché bisogna avere veramente qualcosa da dire – e bisogna anche saperlo dire – per ereditare un genere così strettamente legato all’opera dell’artista milanese e oggi tanto soffocato dalla sua mancanza.

Fortunatamente Casale durante la sua immersione – il booklet si apre con l’immagine del cantante seduto in poltrona a fondo piscina e si chiude con un’altra che lo ritrae mentre è ormai riemerso, con la testa fuori dall’acqua – qualcosa da dire ce l’ha: un richiamo ardente a mordere la vita (“Voglio che tu sia un avvento un mistero un miraggio un oltraggio al presente”, dall’intensa Cara giovane vergine che mi parli di suicidio) e a ritrovarne lo splendore (il semplicistico appello agli artisti di Ora o mai più); un urlo contro chi la vita la vuole anestetizzare, rendere surrogato di sé stessa (Vivacchio), costringere in un assurdo surplus legislativo (Sbarre sui denti, con l’apporto dell’attore Roberto Citran) o deprimere nel vuoto adulatorio di uno dei tanti artisti di regime (Parassita intellettuale).

In mezzo anche un percorso più interiore e confidenziale (Marina Elisa), che deve più a Tenco che a Gaber ma, come per quest’ultimo, non riesce sempre a staccarsi dal modello e a rendere gli arrangiamenti consoni alle tonalità dei pezzi: qua e là strumenti e scampoli elettronici sono di troppo, qualche riferimento raggiunge e supera il semplice omaggio (Sbarre sui denti) e non mancano episodi decisamente di maniera (All I want to be). Ma nel complesso non si può certo dire che la (ex?) voce degli Estra abbia preso una via fin troppo facile come è successo ad altri carismatici leader del rock italiano. In fondo al blu Giulio Casale ha fatto il primo passo di una difficile ricerca del proprio pezzo d’eredità musicale e di un percorso artistico-umano che se continuerà su questa strada potrebbe rivelarci in futuro qualche magnifico splendore.

Voto: 7.4
Brani migliori: Cara giovane vergine che mi parli di suicidio, Parassita intellettuale.

Written by Luca

23/12/2007 at 10:26

Il posto delle fragole cds – Marco Parente (Mescal, 2005)

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Portate a termine le molteplici derivazioni del fortunato “Trasparente”, l’instancabile Marco Parente consegna alle stampe un assaggio di quello che sarà il suo nuovo (doppio) progetto musicale Neve Ridens, due dischi in uscita rispettivamente a settembre e a febbraio nati dalle stesso nucleo di canzoni ma opposti in quanto ad atmosfere.
Rispetto alla produzioni precedenti Il posto delle fragole – ogni riferimento al film di Bergman è assolutamente voluto – dimostra in fase di arrangiamento un approccio più diretto e asciutto, quasi rock’n’roll, mantenendo comunque a livello di scrittura le buone cose fatte in passato. Ai primi ascolti l’appeal non è sicuramente lo stesso di un singolo(ne) come “Lamiarivoluzione”, ma sulla lunga distanza il pezzo conquista maggiori favori – ritornello e coda in primis – grazie anche all’apporto dei mariposiani Enzo Cimino (batteria di custodie) e Enrico Gabrieli (piano e honky tonk).
Completano il dischetto due b-side: Reperto ritrovato, pezzo che ricorda i toni di “Testa dì e cuore” aperto e chiuso da uno splendido giro di chitarra; e Altopiano parlante, gradevole strumentale che a quanto si sa preannuncia insieme alla traccia uno le sonorità del primo dei due dischi in uscita.

Voto: 6.4
Brani migliori: Il posto delle fragole. 

Written by Luca

21/12/2007 at 12:07