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recensioni di Luca Barachetti – lucabarachetti@gmail.com

Archive for aprile 2008

Cosa dico quando non parlo – Gerda (Wallace Records/Donnabavosa/Shove/Concubine/Sons of Vesta, 2007)

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Deflagra in sette abrasivi haiku sonori il secondo capitolo dei marchigiani Gerda. “Cosa dico quando non parloè, davvero, un campo minato: improvviso e potente come un frana che cade dalla montagna e sfonda le pareti della vostra cameretta – impolverando, poveri voi, tutte le vostre belle felpe nuove. Rimanendo in suolo italico, siamo a metà tra Sedia (in cui milita lo stesso bassista Alessio Compagnucci) e Infarto, Scheisse!: post-metal impastato a nichilistiche lacerazioni emo-hardcore che media alla meglio tra pesi e superpesi (in cabina di regia, come per il primo capitolo, Fabio Magistrali), con più di un occhio di riguardo nei confronti dei testi. Testi che qui contano veramente, tanto che se fossero intuibili con facilità durante l’ascolto avrebbero il loro bel dire a livello emozionale. Riportiamo, come assaggio, alcuni scampoli da Un fiume giusto («dovrà pur esistere un fiume giusto / dove tuffarsi / dove nuotare / un fiume giusto dove affogare / mentre sono schiacciato qua dal macigno»), non dimenticando l’Houellebecq direttamente e programmaticamente citato nella chiusa di Dominio della mia lotta. L’atmosfera del resto è quella: disperata e rabbiosa, fisica e debordante. Mettetevi al riparo, non solo a Baghdad le bombe fanno il vuoto.

Voto: 7.7
Brani migliori: Un fiume giusto, Dominio della mia lotta.

Written by Luca

29/04/2008 at 16:35

Dal fondo – Petrol (Casasonica, 2007)

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Fotografie satellitari di grigie metropoli fumanti anticipano le atmosfere urbane-apocalittiche dell’esordio dei Petrol, supergruppo di fuoriusciti che farà la gioia di chi, in piena indipendenza fine anni novanta, c’era e partecipava. Ale Bavo (Sushi) ai synth, Dan Solo (Marlene Kuntz) al basso, Franz Goria (Fluxus) alla voce – più Valerio Alessio alla batteria – raccolgono ferite d’amore e malattie sociali dei nostri tempi in nove brani spessi, per lo più ballad, sovente bilanciati tra chiaroscuri vellutati e deflagrazioni chitarristiche. Rock d’autore di cuore e perizia, in cui a turno è preferibile sottolineare la parola rock o la parola autore ma accomunando il tutto in un’omogeneità di atmosfere che subito coinvolge e colpisce, per merito, tra le altre cose, dell’intelligente utilizzo “ambientale” di tastiere ed elettronica.

L’ispirazione, come sempre, decide tutto o quasi, e Dal fondo apre e chiude piuttosto bene, calando lievemente al centro senza però affondare. Cera lascia inchiodati in testa i due versi d’apertura («sono i tuoi occhi di cera / e le tue mani importanti») lungo un’onda livida che cresce piano sulla voce felpata di Goria; Ogni silenzio regala un ritornello importante (stacco più frastuono di sei corde) e quattro o cinque brividi da non evitare; Il nostro battito nel cuore lancia su tese palpitazioni quasi sottovoce un un’invettiva alla Gaber che congiunge al millimetro mondi lontani ma necessari. Prima dello strumentale di chiusura, Senza alcuna ragione costruisce sepolcri e ciminiere tracciando una rotta C.S.I.MarleneCave non impensabile ma raffinata. Se i nomi che abbiamo citato fino ad ora non avessero fatto quello che hanno fatto fino ad oggi, probabilmente saremmo qui a gridare al (mezzo) miracolo. Non succederà, ma concedeteci la (mezza) lode per un disco da tenere tra quelli che una soddisfazione, o più di una, la darà ancora per un po’.

Voto: 7.3
Brani migliori: Cera, Il nostro battito del cuore.

Written by Luca

29/04/2008 at 09:56

Sacco e fuoco – Teresa De Sio (C.o.r.e./Edel, 2007)

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Ascoltate e imparate come si fa un bel disco di musica popolare nell’anno 2007. Nessuno slogan, nessuna facile commistione di ritmi e suoni glocali di moda, nessuna snaturamento di tradizioni in nome di un culturalismo pataccaro. Teresa De Sio sa il fatto suo, è ovvio, ma Sacco e fuoco, ancor meglio del suo predecessore “A sud! A sud!”, ha una grande peculiarità che da sola spiega ogni cosa: pulsa verità dalla prima all’ultima nota. Verità che vuol dire culture vissute, studiate, immagazzinate; verità che significa undici canzoni una più bella dell’altra, infuocate come braci di rabbia e ribellione, figlie di una brigantessa dall’ugola ruvida e salace che canta al popolo – con la voce del popolo – tutta la sua indignazione per un mondo che non funziona.

A morte e zì Frungillo di Carlo D’Angiò è la chiamata alla rivolta con colpi di bastone e canto sciamanico della De Sio-sacerdotessa pagana della strada; Sacco e fuoco mischia meridioni musicali e canzone d’autore in un’amara storia di brigantaggio post-unità d’Italia; Non tengo paura inscrive dentro una pop-ballad tonda tonda con cornice etno-folk l’opposizione ad ogni moralismo ipocrita. Da lì in poi l’anima del disco, tre secchi manrovesci contro tutto ciò che non va: A figlia d”o rre, vibrante monologo di una donna che «si fosse’a figlia ‘e nisciuno / me ne futtesse pure d”o rre»; Amén, raggae tarantato con beffarda invocazione alla «Madonna d’a munnezza» contro le disgrazie di Napoli (che starebbe perfetto ad un Peppe Barra in trasferta a Kingston) e Ukellelle, crepuscolo africano con intervento vocale della maliana Esha Tizazy a sigillare la forza di uno sguardo che adocchia e illumina ogni sud del mondo come se fosse casa sua.

Sul finire il tradizionale Vulesse addeventare riscritto e ampliato per l’occasione e la rilettura di Tambureddu di Modugno sigillano la doppia anima – popolare e d’autore – di una delle poche vere signore della musica italiana. Ascoltatela aggirarsi dalle parti della Mannoia nel ripescaggio di Brigante di frontiera (da “Un libero cercare”, 1995): la scambiereste con l’agente di import-export italo-brasiliano che è diventata l’interprete romana di “Onda tropicale”? Noi per nulla al mondo. Qui scorre la vita di strada, la paura, il coraggio. Là solamente souvenirs per attici-bene romani che alla prima occasione, per fortuna, saremo tutti contenti di dimenticare.

Voto: 8.5
Brani migliori: A figlia d”o rre, Amén, Ukellelle.

Written by Luca

23/04/2008 at 21:47

Polvere – Polvere (Wallace Records/Minority Records/TownTone, 2007)

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Terza uscita in quattro anni per Polvere, alias Xabier Iriondo e Mattia Coletti. Questa volta si tratta di sei brani su 10” che riprendono il discorso dei due lavori precedenti (il primo soprattutto, targato 2004) in parte riaggiornandolo alla luce delle recenti trasferte giapponesi del duo, arrivato nella terra del sol levante un anno fa per una serie di esibizioni. Folk anticonvezionale, certo, ma dotato di un’anima che risponde alle proprie esigenze sperimentali con un’indole tutt’altro che autoreferenziale e, anzi, qui come non mai, dal buon taglio immaginifico. Traballanti crescendo di spessore sonoro e intensità emotiva, bordoni rumorosi, registrazione di musiche tradizionali nipponiche, ipnosi di corde sovrapposte e fruscii elettronici, sono la materia di un progetto che brilla per curiosità e indole libertaria, non tralasciando ogni tanto quadretti dalla forte gradazione cinematica che “aiutano” all’approccio i più profani, assecondati pure dalla durata antidispersiva del dischetto (venti minuti). Produce il tutto la solita benemerita Wallace, cooperando con Minority Records (Repubblica Ceca) e TownTone (Giappone).

Voto: 8.2

Written by Luca

23/04/2008 at 11:17

Tutti amano tutti – Atleticodefina (Venus, 2007)

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Metafora calcistica quasi d’obbligo per l’Atleticodefina di Pasquale De Fina. Ovvero: squadra che vince (il buon esordio di due anni fa) non si cambia ma, anzi, si rafforza, con l’innesto al basso di Saturino Celani a fare compagnia a Giorgio Prette (Afterhours) e ad un manipolo di ospiti (Pepe Ragonese, Mauro Pagani, Cesare Basile, Giuliano Dettori) che rinnovano quanto basta la tavolozza dei colori in gioco. Il songwriting, invece, rimane sempre quello: non sconvolgente ma sempre all’altezza delle aspettative, debitore dei primi Afterhours “italiani” (quelli di “Hai paura dei buio?”, per intenderci) ma capace di distaccarsi grazie ad una maggiore rotondità di scrittura, quasi cantautorale. De Fina sa che pesci pigliare quando si tratta di scrivere un buon pezzo di pop-rock intelligente, e per Tutti amano tutti pesca in una laguna di funky, jazz e folk che ci dà buone soddisfazioni. Chitarrina funky e ritornello spazioso nel duetto con Syria di Sono io; pianoforte, fiati e voce increspata per il jazzato emozionale di Venere; dobro, tromba e acustica nella folkeggiante E’ stato come; groove e pompa di fiati per la geometrica Musica e macerie.
Le rimanenti cinque poi sanno sempre come aggiustarsi il tiro, in linea col precedente omonimo esordio e ben lontane da quel “Viva vittoria” di marca Volwo che dilatava e complicava senza però smarrirsi. Sembra di capire che quei tempi non torneranno più. Quelli attuali però non lasciano mancare niente.

Voto: 7.4
Brani migliori: Sono io, Venere.

Written by Luca

23/04/2008 at 08:12

Magnifico – Bonaveri (Fabbrica di parole & Musica/Duende Music, 2007)

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Ex Resto Mancha – con i quali firmò un disco nel 2001 (“Scivola via”) – Germano Bonaveri torna questa volta solista con un lavoro che vede ancora i suoi ex compagni di gruppo impegnati con lui in studio sotto l’egida produttiva di Beppe Quirici e la piacevole ospitata di alcuni nomi nel giro del produttore (Elio Rivagli, Mario Arcari, Martina Marchiori). Chi transita spesso dalle parti di Fossati e dell’ultimo Gaber sa bene di cosa parlo, sia per quanto riguarda lo spessore dei personaggi coinvolti sia quel che concerne il risultato finale, dodici tracce di puro e tradizionalissimo cantautorato nostrano. Più  Gaber che Fossati in verità, ma soprattutto Finardi, Vecchioni e Bertoli, per una proposta che – va dato atto a Bonaveri – non scarseggia di passione e sincerità ma che allo stesso tempo avrebbe bisogno di un solido restauro. Qual è il problema? Il solito quando si tratta di nuovi cantautori che guardano a certi modelli senza un minimo di distacco: si è già detto e fatto tutto, e per giunta nell’ambito di un genere che nel suo pochissimo equilibrio tra parole parole parole e (poca) musica ha esaurito in fretta tutti gli spunti, grazie anche a quei due o due o tre nomi che parificando il gap tra note e versi hanno davvero colmato la misura.

Insomma: testi curati in Magnifico, lessico a volte prezioso a volte riuscito nella sua semplicità, pure qualche abbozzo poetico del tutto funzionale alla causa. Ma non un passaggio che appaia anche lontanamente fresco, piuttosto un continuo rincorrere modelli francamente inarrivabili o del tutto soffocanti. Il cantautorato tradizionale italiano deve slegarsi dalla propria verbosità testuale e aprirsi finalmente e totalmente alla canzone nel suo significato più pieno. Basta guardarsi intorno: pochissimi delle prime generazioni resistono al passare del tempo (e guarda caso tra questi ci sono proprio quei due o tre grandi nomi di cui sopra), immaginiamoci che fine possono fare quei nomi nuovi che riprendono e ripropongono pari pari quella stessa tradizione ormai usurata e, concedetecelo, un po’ reazionaria. Sia chiaro, non è una questione politica e nemmeno di razzismo musicale, è solo storia. Una volta Bubola disse che i cantautori italiani non si sono mai accorti che tra gli anni settanta e oggi c’è stato il grunge e Kurt Cobain. Analisi un po’ grossolana, ci mancherebbe, ma con un fondo di verità: bisogna aprire le finestre e aerare le stanze. Qualcuno lo sta già facendo, qualcun altro decisamente no e non gli rimane che lasciarsi asfissiare. Magari con dignità, come Bonaveri, ma senza trovare uno spiraglio davvero importante, davvero personale e nuovo.

Voto: 5.7
Brani migliori: Torquemada.

Written by Luca

22/04/2008 at 13:30

Costa Ovest – Gabriella Pascale (Lucky Planets, 2007)

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Boccate di ossigeno da Napoli. Gabriella Pascale non rinuncia ad un grammo della veracità delle sua radici ma lavora di lima sui toni, per quanto sia possibile in una tradizione necessariamente passionale come quella partenopea. Da Di Giacomo agli Almamegretta, e con una manciata di ottimi inediti in mezzo, l’ex Walhalla ripercorre a sprazzi tre secoli di musica napoletana dimostrando che di tutto si ha bisogno da quelle parti, meno che di retoriche nostalgie e quadretti televisivi plastificati alla peggio. Eppure è un disco del tutto nella tradizione “Costa Ovest“: chitarre e mandolini spuntano ovunque insieme a impianti percussivi che a volte sconfinano in piacevoli poliritmie africane (T’arricuorde) e altre azzardano un filo di bossa (Suonno, anema e libertà), mentre la voce fa il resto incrociando teatralità e passione com’è giusto che sia in questi casi. Una voce che è voce di sangue e sale, vera arma in più pressoché ad ogni passaggio, sia nelle riletture da canone (Tarantella d’a fatica, Indifferentemente, Napulitana) sia negli interessanti aggiornamenti di tradizione che buttano nella mischia i 24 Grana di 1799 (con Di Bella a duettare) o rivestono d’archi gli Almamegretta di Fatmah.
Riguardo gli inediti – scritti in collaborazione col fratello Ninni Pascale ed Ettore Sciarra – menzione speciale per il jazz denudato di Vuje, anche se a fare bene i conti il meglio viene dalla purezza neomelodica virata in teatralità Avion Travel di Chille va pazze pe’ tte. Come volevasi dimostrare: via la retorica e tutto rinasce.

Voto: 7.2
Brani migliori: Chille va pazze pe’ tte.

Written by Luca

18/04/2008 at 14:24

Love is a dog from hell – Black Eyed Dog (Ghost Records, 2007)

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Citazione drakeiana nel nome, chitarra e piano come accompagnatori quasi esclusivi delle canzoni, una manciata tra le migliori firme del nuovo cantautorato d’oltreoceano a fare da numi tutelari. Basterebbero queste poche nozioni per descrivere piuttosto puntualmente il songwriting anglofono di Fabio Parrinello in arte Black Eyed Dog. Un approccio alla forma canzone tradizionale ma sottilmente aperto alle contaminazioni, che scorre sul filo di una malinconia spesso indolenzita e restia ma non meno sincera di una confessione a cuore aperto e chitarra sottobraccio. Devendra Banhart, Will Oldham e Bright Eyes stanno intorno ma non occupano del tutto lo spazio, perché al di là di una discendenza quasi ovvia – ma non per questo celata – le canzoni da sole si guadagnano punti sul campo. Siano crepuscoli acustici con voce tremante e synth in secondo piano a far da fondale (Careless) o ombre lunghe gettate sui tasti di un pianoforte color seppia (Blue Eyed Girl), la risultante è valida soprattutto per spessore emozionale e di scrittura, quand’anche gli arrangiamenti nella loro essenzialità collaborano e incidono, vedasi l’arpeggio potentissimo con piano in ipnosi a scomparsa di Cruising o ancora il piano quadrato (con Kurt Weill presente ma a giusta distanza) di Ballad of Descruction. Dunque se rischi ci sono non sono di parentele troppo strette e soffocanti; attenzione però ai luoghi comuni di scaletta: un tre-quarti in un disco così ci sta sempre bene, ma un tre-quarti da circo malinconioso-bohemienne con fisarmonica, piano e quant’altro come Diazepam for Robin Hood lo troviamo ormai dappertutto e non è che lungo queste vie si possa variare molto.
Comunque questioni da pignoli. Disco prenotato nella graduatoria dei migliori esordi dell’anno, Black Eyed Dog nella lista dei cantautori che sanno come trattare i nostri cuori. Il sottoscritto, poi, sarebbe proprio curioso di sentirlo cantare almeno una volta in italiano per vedere che (bell’) effetto che fa.

Voto: 7.7
Brani migliori: Careless, Cruising.

Written by Luca

10/04/2008 at 15:36

Pubblicato su Senza Categoria

Indie Mood – ChantSong Orchestra (Felmay, 2007)

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Un’orchestra di giovani jazzisti lontani da qualsiasi fondamentalismo musicale insieme ad alcuni dei nomi più importanti dell’indie italiano di metà anni novanta. Nasce così Indie Mood, progetto della ChantSong Orchestra che rivisita affidandoli ai legittimi proprietari o ad altre voci una manciata di brani rappresentativi della stagione d’oro dell’indipendenza nostrana, per l’occasione riarrangiati in chiave jazz o quasi. Sfilano uno dietro l’altro Cristina Donà, Frankie Hi Nrg, Cristiano Godano, Emidio Clementi, Emo dei Linea 77, Mauro Ermanno Giovanardi, Luca Morino e Roy Paci (più l’intruso Aldo Nove), e una serie di canzoni che tutti conosciamo ma che così rivestite non risparmiano qualche spassosa sorpresa.

La Donà canta in mille tonalità una Discolabirinto il cui groove viene ottimamente rimisceltato dai fiati del combo con ingenti dosi di eleganza; Godano tiene stretta Lieve con piglio da crooner ombroso mentre l’arrangiamento si espande in rivoli di contrabbassi brulicanti, sax imprendibili, piano etereo e chitarra di Lorenzo Corti. Emidio Clementi dice alla sua maniera Voglio una pelle splendida su atmosfera sognante più slide a iniettare crepuscoli e poi riprende Il primo dio tra saliscendi di fiati imperiosi. Giovanardi sceglie invece Stelle buone e Ninna nanna, entrambe piuttosto riuscite, al contrario di Forma e sostanza e Sempre più vicino (Emo e Morino rispettivamente alla voce) che tra vuoti-pieni di suono e interpretazioni senza troppo smalto sono gli unici episodi a non entusiasmare.

Completano il tutto l’istantanea Disconnetti il potere (Frankie Nrg nel tentativo, riuscito, di non modersi la lingua), Balon Combo dei Mau Mau defolkizzata a puntino, la marleniana Festa mesta bombardata dai cluster jazz-core di Roy Paci, e gli unici due inediti di tutta la track-list: lo strumentale jazz-blues Caffè Macedonia e l’intrusione declamatoria di Gusci a perdere con Aldo Nove novello Savonarola a staffilare versi anti-precariato su muscolose virate da big-band. Progetto interessante e riuscito. Assolutamente da ripetere.

Voto: 8.2
Brani migliori: Discolabirinto, Lieve.

Written by Luca

10/04/2008 at 08:28

Al di là di questi anni – Marina Rei (On The Road, 2007)

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Il salto spiccato dopo gli inciampi e la rincorsa. Prendersi sulle spalle il passato e il presente per farci i conti, senza rinnegare nulla. Un planaggio finalmente coraggioso e autonomo, che si lascia ammirare per grazia e consapevolezza senza essere per forza incredibile. Marina Rei e le sue canzoni, riprese in un live semiacustico che diventa disco. Chitarre e pianoforte, archi e percussioni: a caratterizzare una rilettura che brilla soprattutto per la capacità di riverdersi e, se necessario, correggersi. Si potrebbe liquidare il tutto con un perentorio “tutto merito della famiglia Sinigallia” (Marina è compagna di Daniele, fratello di Riccardo Sinigallia) ma sarebbe un giudizio affrettato, perché le tredici riletture di Al di là di questi anni trasudano urgenza e voglia di mettersi alla prova per farsi (ancora) vibrare. E alla fine ci riescono, anche nei pezzi più delicati (una T’innamorerò quasi sussurrata, con finale che riprende voce e chitarra addirittura Primavera), anche nella cover che i più sprovveduti giudicheranno inaspettata (Quello che non c’è degli Afterhours in un crescendo assai sentito), anche e soprattutto nelle restanti tracce, tessere di un canzoniere che probabilmente non stravolgerà le sorti musicali del belpaese ma che qui arde di luce propria, grazie anche all’accentuata drammaticità degli archi pressoché onnipresenti e tutt’altro che eccessivi. L’ossatura poi è tutta percussiva e merito della stessa titolare, che gestisce djembé, darabuka e compagnia con gusto e accortezza, lasciandosi andare quando è giusto e trattenendosi quando lo è altrettanto. Smettetela di storcere il naso e date una possibilità a Marina Rei. Canzoni come I miei complimenti, Fammi entrare, Continui e Colpisci meritano una possibilità. E poi cambiare di tanto in tanto idea è un esercizio che fa sempre bene. 

Voto: 7.8
Brani migliori: I miei complimenti, Fammi entrare.

Written by Luca

08/04/2008 at 15:29

Fuzz Orchestra – Fuzz Orchestra (Wallace Records/Bar La Muerte/Audioglobe, 2007)

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Ragione sociale in qualche modo ossimorica per l’esordio di questo combo formato dai tre quarti dei Bron Y Aur. Fuzz Orchestra usa chitarra (Luca Ciffo) e batteria (Marco Mazzoli) al servizio della voce, o meglio delle voci, quelle riprese da filmati storici o vecchi vinili dei recordings di Fabio Ferrario, per un rock angolare e reiterativo, sincopato nelle ritmiche ed elettrico quanto basta a creare fuzz-flussi chitarristici densi e potenti; mentre saltuarie concessioni industrial (La Bestia) e rumorismi impro assortiti (Lilimarlene) variano sensibilmente il copione senza sfatarne l’efficacia. Nei nastri la fine di Mussolini e la Liberazione (Il potere), la strage di Bologna (Agosto80), ma anche l’asfittico folklore partenopeo, innestato attraverso una Torna Surriento per soli mandolini sulla deflagrazione iniziale di Omissis. Il fine ultimo sembra quello di ottenere una trance ritmico-elettrica non priva di una propria specifica forza evocativa, oltre che ovviamente di un dinamismo energetico e trascinante che è forse il primo pregio del gruppo. Valga come esempio a riguardo la conclusiva Eclisse Fuzz, brano in cui le registrazioni lasciano spazio ad un vero e proprio cantato (distorto) ed ottima chiusura di un disco che sui trenta minuti scarsi di musica trova la propria durata ideale nonché il più convincente dei compimenti.

Voto: 7.5
Brani migliori: La Bestia, Eclisse Fuzz.

Written by Luca

08/04/2008 at 08:02

Funambola – Patrizia Laquidara (Ponderosa, 2007)

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Se quattro anni orsono, dopo averne ascoltato l’esordio “Indirizzo portoghese”, avessimo dovuto scegliere il produttore del nuovo lavoro di Patrizia Laquidara, molto probabilmente avremmo optato per Arto Lindsay. E difatti è proprio l’ex Lounge Lizards a produrre questo Funambola, secondo tentativo – dopo il primo, quasi del tutto riuscito – da parte dell’autrice-interprete vicentina di rinverdire le frequentatissime coordinate che legano la tradizione cantautorale italiana a quella brasiliana.

Rispetto al suo predecessore, Funambola è un disco meno diretto, ma vitale e tirato a lucido in pieno stile Lindsay. L’originalità di scrittura e interpretazione della Laquidara trovano un ambiente sonoro moderno e raffinato, dove a dominare tra accenti tribalisti (Ziza), sfumature jazz e pop-song dalla rara dolcezza ed eleganza (L’equilibrio è un miracolo), ed echi di bossa (meno presenti che in passato), è un’atmosfera del tutto newyorchese (lì il disco è stato appunto registrato), che racchiude quasi tutti i brani in strutture stilose e designeristiche (Le cose), senza però far perdere loro un briciolo del calore originario.

Le architetture ritmiche sono accentuate e a volte sottilmente complesse, pianoforte e chitarre completano delicatamente gli spazi, gli archi li scontornano aggiungendo ogni tanto all’eleganza generale una sensuale o dolorosa alterità. A raggiungere il bonus poi ci pensa la voce della Laquidara, qui indolente ed eccentrica (Pioggia senza zucchero), là diafana e ipnotizzata nella stessa ipnosi dei suoni (l’atmosfera da schnitzleriano “Doppio sogno” di Senza pelle, con testo di Giulio Casale), ma sempre e comunque all’altezza delle situazione, anche quando come per Addosso urge un tocco di teatralità erotizzante.

Non è un caso, a questo proposito, che tra le firme dei brani ci siano alcuni dei più importanti e più o meno nuovi autori di casa nostra (Kaballà, Joe Barbieri e Pacifico, che mette la sua inconfondibile impronta sul pop soffuso di Chiaro e gelido mattino); così come non è un caso che la miglior sintesi delle specificità di Funambola sia una canzone scritta proprio da Lindsay (che la inserì in “Salt”, anno duemilaquattro) e tradotta in italiano da Luca Gemma. E’ Personaggio, brano di fronte alla cui carica percussiva è difficile stare fermi e, almeno a livello simbolico, ideale punto d’incontro di tutte le influenze di un personaggio curioso e davvero contaminante qual è Patrizia Laquidara.

Voto: 8.2
Brani migliori: L’equilibrio è un miracolo, Personaggio.

Written by Luca

07/04/2008 at 06:22

Nient’altro che madrigali – Io?drama (Tube Records/Venus, 2007)

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Ad un certo punto viene da domandarsi se ci è o ci fa. Fabrizio Pollio, voce e autore di tutti i pezzi del disco d’esordio degli Io?drama. Una specie di cyber-clown isterico, a tratti sardonico, a tratti melodrammaticamente indolenzito, ma sempre e comunque protagonista. Lì in mezzo, al centro del gruppo proprio come nella foto del booklet (l’unico a mimare una mossa dai vaghi significati, gli altri compagni impassibili), con la sua voce che prima si impone, poi sfida, poi esagera. Non sarebbe un brutto esordio quello del quintetto milanese se non fosse per l’eccesso del suo front-man, a volte davvero troppo front. L’idea di fondo è quella di unire, o meglio acuire, la magniloquenza apocalittica dei Muse scaricando un poco i fasti da fine del mondo del gruppo di Manchester ma tirando al massimo la teatralità, in tutti i suoi toni. Quindi via al sarcasmo malefico da cyber-clown (L’inquietudine di Babi, e chissà chi erano mai Camerini e Cattaneo), via alle lamentazioni più calcate e stucchevolmente retoriche che a confronto Carmen Consoli è l’allegria fatta persona  (Morgana dorme), via ad un approccio interpretativo tanto eclettico quanto – non poche volte – irritante, che neanche ci risparmia vocalizzi eccentrici ma superflui, berciate e urla animalesche.

Fortunatamente il resto del gruppo non rimane in secondo piano, grazie soprattutto ad una resa sonora di prim’ordine, con chitarre taglienti al punto giusto, basso-batteria granitici e violino a deviare un po’ il passo dalla rotta inesorabilmente musiana. Certo, se non fosse per quest’ultimo – e per i due colpi di coda a nome Pelle liscia e Nerabile: il primo coraggioso innesto Afterhours-dancefloor che qualche frutto raccoglie, il secondo rincorsa dignitosa e personale alla marzialità di segno CSI – più lontano dal solito copia-incolla di tanti esordi italiani non andremmo. Però, lo ripetiamo, gli Io?drama come strumentisti ci sanno fare. Hanno, alla fine, un solo ed evidente difetto: l’ingenuità un po’ incosciente e pretenziosa di concretizzare progetti dalle grandi ambizioni senza avere i brani, e soprattutto la consapevolezza, per farlo. La stessa consapevolezza che inietterebbe una sana dose di autoironia al loro cantante, insieme alla necessità di affrontare progetti difficili avendo in primis la capacità di sapersi gestire.

Voto: 4.8
Brani migliori: Nerabile.

Written by Luca

06/04/2008 at 19:23

Collettivo Angelo Mai – Collettivo Angelo Mai (Autoprodotto, 2007)

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All’inizio è stata un’occupazione per emergenza abitativa da parte di trenta famiglie. Poi si è aggiunto accanto un laboratorio culturale: teatro, cinema, arte contemporanea e, ovviamente, musica. Tre anni di socialità e cultura a prezzi popolari, in mezzo uno sgombero, ma anche l’assegnazione di un nuovo posto dove stare, con l’effettivo riconoscimento da parte delle istituzioni della città di Roma. E’ l’Angelo Mai Occupato, il cui omonimo Collettivo dà alle stampe questo disco autoprodotto e registrato in soli quattro giorni che ospita alcuni degli animatori delle serate musicali del centro. Lungo le tredici tracce improvvisazioni jazz brevi e rumoristiche, strumentali dal taglio cinematico e vere e proprie canzoni che coinvolgono alcuni protagonisti dell’area cantautorale romana: gli esordienti Massimo Giangrande e Francesco Forni e i ben più noti Roberto Angelini e Pino Marino. Proprio da questi ultimi, e dagli strumentali ad opera dell’ex Tiromancino Andrea Pesce, vengono le cose più interessanti di tutto il lotto. Giangrande firma l’intensa ballad da saloon morriconiano Il mestiere di vivere e in chiusura presta la propria voce al sigillo corale di Across the universe; mentre Forni solletica l’animo con l’intima Un giorno qualunque e accelera il ritmo con lo swing semialcolico di Blue Venom Bar. I due “famosi” invece riarrangiano pezzi già editi o pronti da editare, arricchendo di sfumature gli arrangiamenti grazie alla poliedrica sezione strumentale del Collettivo, che tra fiati multiformi, vibrafoni e campane (ci mette la mano pure un Filippo Gatti in penombra) regala aromi folk-jazz alle ottime Non ho lavoro e Io resto qui di Pino Marino e alle confortanti Oceano e Fiori rari (la prima dall’esordio “Sig. Domani”, la seconda presente nel nuovo lavoro in uscita entro l’anno) di un Angelini ormai lontano dal capitombolo di “Gatto Matto”.
Disco e progetto utili e interessanti. Per tutte le informazioni (anche su come acquistare il disco) http://www.angelomai.org/. Fateci un giro, mi raccomando.

Voto: 6.8
Brani migliori: Il mestiere di vivere.

Written by Luca

04/04/2008 at 18:30

Tutti contro tutti – Giorgio Canali & Rossofuoco (La Tempesta, 2007)

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A settanta metri al secondo e non fermarsi ancora: l’uomo che cantando e suonando precipita, indomabile. Chiamarlo rock’n’roll ma crederci poco, perché se anche tutto il resto è rock’n’roll, allora Giorgio Canali chissà chi è. Uno stile, ma di vita prima di tutto. Che le chitarre e i tamburi non basterebbero se non ci fosse l’Uomo. Colui che nudo e inarrestabile si infrange addosso a chi ascolta. Carne di rabbia e respiro di disincanto. Uno solitario contro tutti nel Tutti contro tutti della realtà: in fondo, un modo magnifico per non sentire il vuoto. Anche quando magari qualcosa non si presenta al meglio; oppure solo perché bisogna sempre fare i conti con il passato ed il passato per Tutti contro tutti è anno duemilaquattro, un capolavoro senza titolo, freccia in giù e basta. Se non ci fosse stato quel disco forse saremmo qui a oggi gridare al miracolo. Al contrario il quarto capitolo di Canali col carrarmato sonoro Rossuofoco sconta la grandezza del suo predecessore e rimane un passo indietro, ma uno solo.

Gli ingredienti non cambiano: rock e punk a scambiarsi e confondersi nel ruolo di protagonista. Stooges e Gun Club, a tratti Afghan Whigs, per un songwriting che rispetto al passato è meno rotondo e viene lasciato più libero di distendersi o fulminare. I testi anch’essi immutati nell’idea di base: stupendi macramé di rime e assonanze conditi da un citazionismo ossessivo ma salutare (da Gaber a Jobim: a voi scoprirne altri). A definirli in una parola viene da dire incisivi – proprio come i denti che incidono – ma di fondo sono letterari, con tutto ciò che comporta il termine in quanto a consapevolezza d’approccio, affinità con la realtà e suo disvelamento.

Quello che manca in pratica non sono le belle canzoni, ma le canzoni tanto belle da eguagliare le altre. E allora via con quelle belle ma non così belle: l’iniziale decollo chitarristico di Verità, la verità; la falcata amara e intransigente di Falso bolero; l’intimismo del tutto politico di Non dormi; la rilettura in italiano di “Septembre en attendant” (Settembre aspettando) dell’amico Bertrand Cantat con l’armonica di Bugo a rinvigorire gli spettri blues di una guerra infame come quella jugoslava. E poi l’accoppiata centrale di Swiss Hyde e Canzone della tolleranza e dell’amore universale, tipiche elencazioni a mitraglia di cui Canali è maestro, dove niente e nessuno viene risparmiato e la freccia precipita giù più che mai, senza scampo. A trascinare proprio al centro del presente più ripugnante e mortifero un lavoro che, anche solo per l’urgenza immutata e il calore – rabbiosamente umano – di ciò che dice, rimane comunque importante e necessario. Qualcuno ogni tanto si lascia scappare un Giorgio-Canali-unico-vero-rocker-in-Italia. Con qualche dubbio sull’unicità, ma certissimi in quanto a spirito e slancio, approviamo e confermiamo convinti.

Voto: 7.8
Brani migliori: Swiss Hyde, Canzone dell’amore e della tolleranza universale.

Written by Luca

04/04/2008 at 14:00

Pablo Ciallella – Pablo Ciallella (Warner, 2007)

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Qualcuno avrà conosciuto Pablo Ciallella attraverso Dura la vita a Milano città, singolo di qualche mese addietro che raccontava con ironia e disincanto la crudeltà della vita all’ombra del Duomo intersecandola con la più classica delle storie di amore finito (lui tradisce lei, lei lo scopre e lo caccia di casa). Voce recitante nelle strofe, canto nel ritornello piuttosto ruffiano – ma tutto sommato salvabile rispetto ai parametri della radiofonia nostrana – per un brano che a discapito della sua particolarità non riusciva del tutto a sfondare, segnalando comunque Ciallella (italo-argentino emigrato in Italia a metà anni ottanta) come un personaggio se non altro eccentrico e in parte diverso dagli standard. Eccentricità e diversità che tornano anche in questo omonimo esordio sulla lunga distanza prodotto da Roberto Vernetti per la Warner, in cui Ciallella si presenta come una specie di Carotone metropolitano incrociato ad un Bugo privato delle primigenie istanze lo-fi, e con una voce che nei momenti più lirici ricorda addirittura Bersani. Insomma un mix intrigante e piuttosto nuovo, che però alla prova dei fatti non riesce a sorprendere, rimanendo sospeso tra barlumi (comunque secondari) di originalità e passaggi sommamente prevedibili.

Alla voce prevedibilità mettiamo in primis gli arrangiamenti di Vernetti e Marco Prati: è chiaro che un disco marchiato Warner debba anche e soprattutto vendere, ma – permetteteci di dirlo – i due questa volta l’hanno venduto un po’ male. Nel senso che gli arrangiamenti, ovviamente tirati a lucido, ovviamente patinati come la lex radiofonica esige, sono inutili, e anche parecchio bruttini. Qualche base elettronica buttata lì come capita capita (e mai che il “come capita capita” diventi determinante), slide-guitar a ripetizione in didascalia Ciallella-ultimo-eroe-del-west, coretti loffi e strasentiti, nessuna idea che alla lunga si insinui nelle orecchie di chi ascolta e caratterizzi il pezzo. In pratica ordinaria amministrazione, e neanche della migliore.
Eppure di una mano in studio ce n’era bisogno, perché Ciallella sarà pure un personaggio sui generis ma la canzone geniale (come il “mondo difficile” carotoniano, come quella decina scritte da Bugo) non l’ha ancora partorita. Vi si candida il già citato singolo, senza riuscirci. Poi La lavatrice (bello solo l’iniziale «gli uomini pensano al maschile le donne pensano al femminile / ma non tutti sanno far partire la lavatrice»), e anche Rincoglionito, che è il nuovo singolo e qualche chance da tormentone potrebbe pure averla – se non altro perché nell’horror vacui dell’estate italiana pronunciare una ventina di volte rincoglionito in spiaggia può sempre fare figo. Ma da qui al genio ce ne passa.
Meglio invece in versante intimista della track-list: Mi manchi è il seguito ferito della cacciata di Dura la vita a Milano città ed è quasi da pelle d’oca; L’albero delle canzoni lascia il testo un po’ traballante ma coglie nel segno raccontando con realismo e forza emotiva una storia di tossicodipendenza. Certo, in mezzo ci sta pure il folk-rock radio-friendly di Alla fermata della autobus, che profila un baratro di inconsistenza in cui è vitale non cadere. Ma, come spesso ci capita dire in questi casi, è soprattutto una questione di scelte. La prima da fare per il prossimo disco è non sprecare quel tanto di qualità che tra le righe si trova anche qui e che va sicuramente coltivato e fatto crescere. Al di là dell’essere o meno un personaggio interessante. E vendibile.

Voto: 5.2
Brani migliori: Mi manchi.

Written by Luca

04/04/2008 at 08:07

Non Io – Bachi da Pietra (Wallace/Die Schachtel, 2007)

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«Scendi all’automatico col bancomat, dieci litri di benzina in una tanica, saluti un conoscente sali in macchina, sorridi alla tua soluzione drastica […] Questa casa di legno che osservi bruciare apre altre strade». Prendere il largo dal fuoco, senza risorgere. Buttarsi dentro, sotto, nell’anima moderna del mondo. Il secondo disco dei Bachi da Pietra vi si butta a capofitto, con sguardo lucido e implacabile ne squadra la condizione sociale, individuale, disperata. Dal commiato solitario e sepolcrale di Casa di legno verso l’epifania blues-industrial in trance Einstürzende Neubauten di Altri Guasti, e poi oltre. Un viaggio che è un guardarsi intorno e dire, con i versi più veri e più giusti, e per questo impossibili da lasciare scorrere senza crollare almeno un po’. Un viaggio che sulle parole-corde di Giovanni Succi (chi scrive meglio di lui, oggi, in Italia?) e sui ritmi-timbri sempre più variamente oscuri di Bruno Dorella sconta tutta la sua lucida forza, il suo humus brulicante metallo, terra e sangue.

Non Io è titolo che sintetizza tutto perfettamente, mantra accumulativo che nella title-track («fiato al pensiero tanfo di fogna ieri domani la cloaca la storia») irrora un cuore pulsante vuoto e alienazione. Fisica elementare a seguire si innalza mostrando i gomiti di una trama doom densa e quadrata; Lunedì risponde coi suoi vuoti-suoni profondissimi e penetranti: dalla terra – verso la quale, comunque anche qui, prima o poi si torna – al buio che nega e chiarifica («per vedere devi perdere gli occhi») se un senso c’è è quello vergato nelle poche splendide immagini di Farfallazza, che «testardamente: indifferente» sbatte le ali «imperterrita sulla boccia dura del lampione», anche se «non avrebbe senso: non c’è nessuno dentro: insisti d’istinto finchè sarà spento».

Dunque prima di tutto «assicuratevi di essere vivi: Check life», che all’arrivo di Bastiano sarà tormenta elettrica sferragliante corde e incudini: istantanea come non mai nel suo minuto e mezzo e poco più, calca ancora di più l’attuale orizzonte umano («color supplica di cane»), e allarga quello musicale alla germinazione post maltrattata e troncata alla meglio di Giorno perso nonché alla conclusiva “pop-song” (virgolette da aggiungere ad abundantiam) Ofelia: ninna-nanna “da pietra” che sigilla un disco definitivo, fondamentale e – per potenza espressiva – inarrivabile con l’unica cosa che resta da dire: «vivere ancora per morire ancora come amare ancora come bere ancora per fumare ancora come alzarsi ancora e ricadere sola».

Voto: 9.7
Brani migliori: Altri guasti, Non Io, Lunedì.

Written by Luca

02/04/2008 at 16:01

Distratto ma però – Peppe Voltarelli (Alabianca/Komart/Venus, 2007)

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Già ne parlammo ampiamente qui ed è bene ripeterlo, aggiungendo che forse è pure ora di appendere un cartello nella sale prove, nelle cantine, nelle camerette (dove si dice che le canzoni originariamente nascano). Chi vuole fare il cantautore, oggi, in Italia, non è obbligato a infilare Vinicio Capossela ovunque sia possibile. Punto. La situazione è quasi epidemica, patologica. Capossela, ovunque.
Prendete uno come Peppe Voltarelli: mica un esordiente, mica uno di primo pelo. Il Parto delle Nuvole Pesanti nel curriculum, poi teatro, cinema. Esordisce solista con questo Distratto ma però e no, non fa un disco del tutto alla Capossela. Però di riffa o di raffa nei brani ce lo infila spesso. Che poi magari le canzoni girano anche, si fanno sentire, però a forza di sentire sempre quelle chitarre, quelle andature dinoccolate-swordfishtrombonesiane, quelle atmosfere alcoliche-disperate-maledette, alla fine risulta quasi tutto uguale a quel disco o a quell’altro ancora (o all’inimitabile originale e all’ancor più inimitabile padre spiritual-artistico). E ovviamente tutto noioso, molto noioso.

 

Qui le tracce in cui davvero si rintraccia Capossela sono “solo” quattro: Scendo (autentico calco waitsiano con ritornello folkeggiante), La luna ride (una taranta vigorosa a cui la calabresità di Voltarelli non vieta un rimando al “Ballo di San Vito”), Come faccio con te (organo in tre quarti con manovelle accluse) e Sollevato (altro calco from Pomona). Ma pesano tantissimo sull’economia del disco, ne inficiano la purezza, soprattutto la personalità. Come si dice: il troppo, stroppia. E stroppia ancora di più se anche il resto non brilla ne per volontà di rinnovamento ne per zelo di personalità. In sintesi: una storia d’immigrazione in salsa raggae e trombe spiegate (Italiani superstar, Roy Paci ai fiati), qualche buona ballata in dialetto (Aria e L’anima è vulata, quest’ultima con Cammariere al piano), l’immancabile saltarello jazzato (Turismo in quantità) e una title-track questa sì davvero azzeccata per pathos e spirito tanghero. E poi il marchio ormai poco digeribile di cui sopra.

Aspettarsi qualcosa di più da uno come Voltarelli è ovvio. Aspettarsi qualcosa di diverso da chi un giorno decide di provare la strada del cantautorato non è solo giusto, è ormai necessario, se non addirittura vitale. Per intanto avanti il prossimo. E che qualcuno, per favore, appenda quel benedetto cartello.

Voto: 5.7
Brani migliori: Distratto ma però.

Written by Luca

02/04/2008 at 09:49

L’equilibrio non basta – Paolo Cattaneo (Omar Gru-V2/Edel, 2007)

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Paolo Cattaneo, da Brescia, mette in atto quella che sembra essere una delle vie più promettenti per rinnovare l’iperaffolato e saturo mondo della canzone d’autore nostrana: rinverdire la tradizione, fino quasi a snaturarla, con input esteri dal forte valore espressivo. L’equilibrio non basta gioca tra richiami italiani di nuova generazione e contaminazioni post-ambientali comunque trattenute in solida forma-canzone. Chimenti e Tiromancino presenze certe, Mum e Sigur Rós a drenare scariche di emozione per atmosfere lunari e attutite. Più indietro, per quanto riguarda il fronte casalingo, non si va. E forse è un bene, perché le nove composizioni del disco puntano tutto a rinnovare pur con divieto di stravolgimenti, all’insegna di un’autorialità che si chiude elegantemente in sé senza risultare ne autoreferenziale ne superba.

L’apertura di Incastri è quanto di meglio ci si possa aspettare viste le premesse: andatura d’alta scuola con elettronica, piano e clarino a spartirsi la scena e testo notevole («L’astronave stasera si chiama “speranza”» punta ad essere il vincitore di un’ipotetica e assai feticistica classifica del miglior primo verso di un disco anno duemilasette). L’eco che stona e Neurovegetali mostrano invece tutte le altre carte, e che carte: pianoforte, contrabbasso, elettronica, voce semialienata e altro testo da segnare la prima (alla chiamata numero due giusto citare l’autore delle liriche: il poeta Giovanni Peli); ombrosità David Sylvian e ritornello placentare Sigur Rós la seconda, con finale di contrabbasso che riprende avventure ambient-jazzistiche confermate dalla biografia (Cattaneo ha all’attivo dodici anni fa anche un disco in zona new-age).

Il resto qualitativamente segue i brani citati, con una leggera flessione prima delle ultime due tracce, ma siamo noi pignoli, in realtà non è nulla di grave. Anzi: poco prima Cattaneo scrive quella canzone d’amore che a Zampaglione e soci da un po’ di tempo non viene più (Col mio ritmo); e poco dopo con la doppia chiusura de Il passo che giustifica il tempo (fiati e scura ipnosi elettronica Radiohead) e Infinito (nuovo albeggio Sigur con sfrigolii kraut e clarino maestoso a immobilizzare il tempo) rilascia due gioiellini atmosferici che allungano ancora di più l’importante lista di influenze. Insomma: Paolo Cattaneo sorpresa d’inizio anno. Da iscrivere alla voce “possibili salvatori della canzone d’autore italiana”.

Written by Luca

01/04/2008 at 16:42

Dall’altra parte del cancello – Simone Cristicchi (Sony BMG, 2007)

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No gente, permetteteci di essere in disaccordo: il futuro della canzone d’autore italiana non passa soprattutto da Simone Cristicchi. Meritati quanto volete tutti i premi che in soli tre anni si è portato a casa, non ultimo (almeno in quanto a ritorno mediatico) il trionfo sanremese. Meritato pure il riscontro di successo, pubblico e critica all’unisono, di un brano come Ti regalerò una rosa. Reale anche la facilità con cui il nostro passa – sempre con risultati dignitosi – dalla canzone d’autore al teatro-canzone concedendosi anche excursus cinematografici e letterari. Ma in Italia c’è molto di meglio, e soprattutto molto di meno dozzinale e retorico. Perché tirate le somme per “Dall’altra parte del cancello” (e anche per il precedente “Fabbricante di canzoni” che di quest’ultimo ricalca i passi ma con arrangiamenti meno raffinati) il nocciolo della questione, almeno nella sua parte su cd (mentre del dvd parleremo dopo), è proprio questo.

Chiamando in soccorso Cochi e Renato, la scrittura di Cristicchi è l’esempio perfetto di canzone-intelligente, quella che segue «un filo logico importante» ma che alla fine, purtroppo, parla di «un po’ di tutto e un po’ di niente». E poco importa poi se, a dispetto di una vena melodica a volte incisiva, appaiano piuttosto fragili i riferimenti musicali (due, in sintesi: bozzetti acustici tra Fabi e bosse liofilizzate e un pop-hip-hop caparezziano senza tutta la stessa ironia grottesca e corrosiva). Il problema vero è che delle dieci canzoni di “Dall’altra parte del cancello” (l’undicesima è una reading sul pianoforte di Giovanni Allevi) sei parlano più o meno esplicitamente di problemi sociali d’attualità ma solo una di queste dice qualcosa di illuminante e davvero ragguardevole (la cover quasi nu-metal de L’Italiano di Cutugno con la bella intuizione di sostituire nel finale un «italiano nero» invece che «vero»). Anzi: per le restanti cinque spesso siamo dalle parti del cronachismo musicale più spicciolo e inutile (Laureata precaria) o del bozzetto fiabistico che calato in problemi seri e seriamente drammatici irrita per il proprio patetismo tanto superficiale da riuscire a banalizzare anche un suicidio (a proposito di canzoni sulla follia: confrontate Ti regalerò una rosa con “Il matto” di De Andrè o con “Sergio” dei Baustelle e capirete). Mentre altre volte il problema è molto più semplice: Cristicchi tenta nobilmente di fare canzoni comico-satiriche ma non graffia (Non ti preoccupare Giulio con Leo Pari, Pier Cortese e Marco Fabi) o ribadisce didascalicamente cose fritte e rifritte (L’Italia di Piero). Se poi spostiamo l’attenzione sulle altre quattro gli esiti non sono poi tanto diversi. C’è un gran pezzo, ed è La risposta, perfetta e sentita riflessione acustica con ritornello svolazzante e melodia d’archi a toccare il cuore. Ma per il resto si rimane allo stesso modo su un livello tanto dignitoso quanto innocuo. Sopravvalutato? Diremmo proprio di sì.

Di tutt’altra pasta invece il dvd, contenente un documentario di circa settanta minuti girato dal regista Alberto Puliafito che vede Cristicchi vivere in prima persona e raccontare la realtà della malattia mentale (soprattutto per quanto riguarda il periodo pre-legge Basaglia) in un viaggio che attraversa vari ex-manicomi (Roma, Volterra, Siena, Genova) e alcune strutture che attualmente si occupano di persone con problemi mentali. Lontano dagli stereotipi dolcificati del brano sanremese, il taglio narrativo scelto tra Cristicchi è sobrio ma emozionante: ex-infermieri, psicologi e degenti vengono colti soprattutto nei loro aspetti umani, lasciando in secondo piano il dato meramente giornalistico e soffermandosi soprattutto su ricordi, considerazioni (anche di alcuni artisti: da Ascanio Celestini a Samuele Bersani) e soprattutto volti. Sono i volti dei protagonisti, a partire da quello dell’autore che intervalla i filmati con brevi spezzoni simbolici di recitazione muta, i maggiori generatori di pathos del filmato. Visi perplessi e angosciati per quello che è stato il manicomio, visi sdentati e assolutamente sinceri di chi lo ha vissuto, visi spauriti e incantati di chi per raccontare una delle realtà più degradanti e incivili del nostro Paese sceglie, come Cristicchi, la via (finalmente) più rispettosa. Quella che rispetto al cancello sta, com’è inevitabile che sia, da questa parte, evitando smancerie e luoghi comuni a favore di un approccio descrittivo del tutto realistico. Almeno in questo caso, chapeau.

Voto: 6.2
Brani migliori: La risposta.

Written by Luca

01/04/2008 at 12:48